RIO DE JANEIRO - «Mi ha salvato la vita due volte. Mi avevano messo un cappuccio in testa e mi facevano sentire una registrazione di persone torturate. Sollevavano il cappuccio solo quando volevano che identificassi altri latinoamericani che erano perseguitati dalla dittatura. Speravano che io denunciassi gli oppositori al regime in Brasile, ma io ripetevo che non conoscevo nessuno». Era il 1975 e il professor Adolfo Pérez Esquivel, argentino, premio Nobel per la Pace cinque anni più tardi per la sua lotta contro la dittatura e la difesa dei diritti umani, si trovava in un luogo di detenzione non specificato a San Paolo, in Brasile. «Fu il cardinale Paulo Evaristo Arns, allora arcivescovo di San Paolo, a salvarmi la vita – racconta il Nobel argentino –. Organizzò una manifestazione davanti alla porta del commissariato dove mi avevano arrestato riunendo religiosi e difensori dei diritti umani. I militari mi liberarono». Una rivelazione inedita che mette ancora una volta in luce non solo i crimini commessi durante gli anni della buia parentesi militare in Brasile e in altri Paesi della regione, ma anche l’operato della Chiesa cattolica che in quel periodo, nonostante le accuse contro alcuni prelati, si schierò dalla parte dei perseguitati. Nel 1964, il governo dell’allora presidente brasiliano João Goulart fu segnato dall’inflazione alta, dalla depressione economica e da una temibile opposizione delle Forze armate che avevano organizzato, con i militari dei Paesi vicini, la famigerata operazione Condor, il piano concordato negli anni settanta tra le dittature latinoamericane per reprimere le riforme progressiste del continente. Il 31 marzo del 1964 le Forze Armate realizzano un golpe, destituendo Goulart. I leader del colpo di Stato, tra cui i governatori degli stati di Rio de Janeiro, di Minas Gerais e di San Paolo, scelsero come presidente il generale Humberto de Alencar Castelo Branco, al quale seguirono altri generali fino al 1984. Per quasi due decenni vennero soppressi molti diritti costituzionali ed eliminate le persone e le istituzioni legate al presunto tentativo di golpe comunista che aveva giustificato l’instaurarsi della dittatura militare. In seguito al golpe venne imposta una ferrea censura alla stampa e dopo il decreto istituzionale con il quale, nel dicembre del 1968, venne chiuso il Parlamento, furono anche negati i diritti politici tanto che i partiti allora esistenti vennero sciolti ed ebbe inizio l’intensificazione della repressione politica contro i comunisti. Già allora il professor Pérez Esquivel era un nome presente nelle liste degli oppositori invisi ai regimi militari e in particolare a quello argentino del generale Jorge Videla. In Brasile venne infatti arrestato la prima volta nel 1975, non per presunti reati commessi in quel Paese, ma per la sua militanza nei movimenti di difesa dei diritti umani a Buenos Aires. Venne fermato dai militari mentre si stava recando proprio dal cardinale cardinale a San Paolo: «In quella circostanza ebbi paura di morire. Erano in tre a interrogarmi: il primo diceva che mi avrebbero ucciso, il secondo che mi avrebbero torturato e il terzo, che faceva la parte dell’amico, mi consigliava di collaborare. Il cardinale certamente parlò con le autorità brasiliane affinché mi liberassero, ma non so cosa fece esattamente. Quello che so è che non perse tempo per organizzare una manifestazione davanti al commissariato per salvarmi. E mi salvò». Quando venne liberato, invece che tornare in Argentina, Pérez Esquivel si riunì subito con il porporato brasiliano per discutere della repressione nella regione. Il premio Nobel aveva iniziato a collaborare con alcuni gruppi pacifisti di cattolici latinoamericani e, nel 1974, aveva già deciso di lasciare l’insegnamento nella facoltà di architettura per dedicarsi interamente all’assistenza ai poveri e alla lotta contro le ingiustizie sociali e politiche. La seconda volta che Adolfo Pérez Esquivel venne arrestato in Brasile era il 1981 e il pacifista aveva appena ricevuto il Nobel per la pace. «All’Ordine degli avvocati di Rio de Janeiro feci un discorso contro la legge sull’amnistia ai militari responsabili di crimini durante la dittatura. Ma venni arrestato di nuovo a San Paolo, dove mi stavo recando per un incontro con alcuni religiosi, incluso lo stesso cardinale Arns». Come cinque anni prima, il porporato, che alla fine degli anni Sessanta condusse il progetto
Tortura nunca mais (Mai più tortura), organizzò una manifestazione di protesta davanti al commissariato dove era stato condotto il premio Nobel. «Riunì religiosi, difensori dei diritti umani e gente comune e grazie a questo e alla sua determinazione venni liberato di nuovo». Adolfo Pérez Esquivel venne arrestato altre due volte in America Latina: nel 1976 fu incarcerato in Ecuador. Nel 1977 venne invece fermato dalla polizia argentina, che lo torturò e lo tenne in stato di fermo per ben quattordici mesi senza processo. Mentre si trovava in prigione, ricevette il Memoriale della Pace di Papa Giovanni XXIII e nel 1999 anche il Premio
Pacem in Terris, che si ispirava all’ultima enciclica del Pontefice. Nel 1995 pubblicò il libro
Caminando junto al pueblo, nel quale racconta la sua esperienza di attivista. Dal 2003 è presidente della Lega internazionale per i diritti umani e la liberazione dei popoli e dirige una Ong,
Servicio de Paz e Jusiticia (Serjap), che ha sede in Argentina. Le sue rivelazioni arrivano in Brasile in un momento delicato in cui il dibattito aperto dalla presidente Dilma Rousseff su come agire contro i responsabili di crimini durante la dittatura (una repressione di cui lei stessa è stata vittima) non ha prodotto risultati lontanamente paragonabili a quelli avuti ad esempio in Cile o in Argentina. In Brasile, a differenza di questi e altri Paesi della regione dove i militari sono stati condannati e imprigionati, anche se in molti casi successivamente liberati, questo dibattito sembra lontano dalle priorità del Paese e dall’interesse generale dell’opinione pubblica molto più preoccupata per i Mondiali di calcio e le difficoltà economiche.