Calvi dell’ Umbria è un paesino di meno di duemila abitanti eppure ha la fortuna di possedre nell’Oratorio della Confraternita di S. Antonio il più imponente presepe monumentale del Cinquecento, realizzato dai fratelli abruzzesi Giacomo e Raffaele da Montereale, con più di 30 grandi statue che ne fanno una sorta di teatro perenne. È assai comprensibile la genesi di quest’opera mirabile se si pensa che si trova a circa 30 chilometri da Greccio, dove san Francesco nel 1223 organizzò il primo presepe vivente. E per Francesco – di mamma francese – la sensibilità per l’argomento veniva innegabilmente dalla sua complessa sensibilità poetica e di fede, ma pure dal fatto che nella Francia meridionale (luogo di provenienza della madre) la tradizione cortese delle rappresentazioni teatrali del presepe era già in voga. Ben più antica era però l’iconografia del presepe, visto che già sul sarcofago di Stilicone, quello del IV secolo conservato nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano, si ritrova la scena della culla con bue e asinello, la medesima riscontrabile in un sarcofago forse precedente d’un secolo e conservato presso il Museo Cristiano del Vaticano e che corrisponde ad un’altra ancora conservata ad Atene. Ma la trasformazione dell’iconografia in scena vera è propria è assolutamente francescana, a tal punto che sul finire del Duecento Giotto ne rappresenta l’evento in uno dei suoi affreschi più commoventi: quello dove i frati entusiasti cantano a squarciagola mentre Francesco depone il Bambin Gesù nella culla. Ma Giotto era già stato preceduto da Niccolò IV, il primo papa francescano, che aveva commissionato ad Arnolfo di Cambio nel 1288 un presepe tuttora conservato in Santa Maria Maggiore a Roma. E già era migrata verso nord la tradizione, con uno dei primi frati germanici che aveva trasferito l’uso della rappresentazione vivente nel 1252 a Füssen in Baviera, dove tuttora si mette ogni anno in scena. L’arco alpino si riempie successivamente di grandi polittici, nei quali il presepe diventa d’obbligo: ve ne sono testimonianze quattrocentesche di bellissima qualità in Valtellina. E così la greppia tornò in Francia con il nome di
crèche e divenne in tedesco la
Krippe per invadere l’immaginario nordico e diventare in inglese la
crib. Nella pittura ebbe ovviamente grande fortuna da Giotto in poi, che ne replicò l’immagine nella Cappella degli Scrovegni a Padova pochi anni dopo Assisi. Benozzo Gozzoli, che riprende l’integrale iconografia d’Assisi nel suo ciclo di Montefalco, a metà Quattrocento ne dà una versione al contempo tenera ed elegante, come sempre è nel suo stile. Ma già Lorenzo Monaco, il benedettino camaldolese, ne aveva dato una stesura di straordinaria bellezza, nella quale i re magi erano quei veri uomini d’Oriente dall’aspetto arabo con i quali l’Italia dei Comuni allora commerciava. Pochi anni dopo Botticelli, con ancor maggiore eleganza, lo replica in una grande tempera oggi agli Uffizi; tempera che poco dopo i fiorentini abbandoneranno per via della scoperta della pittura all’olio, che arriva dalle Fiandre grazie alla più innovativa delle Natività: quella dipinta da Hugo van der Goes e acquistata dai Portinari. Il grande regalo di Natale ai fiorentini sarà da quel momento in poi la scoperta d’una nuova tecnica nel dipingere. E nel mondo germanico la pittura all’olio procede con enfasi, ben lo testimonia Dürer che di presepi ne dipinge più d’uno, anche se quello forse più noto rimane, con la sua rappresentazione poetica e aneddotica al contempo, un’Epifania dove – fra insetti misteriosi e piante descritte alla perfezione – i Re Magi distratti lasciano un ladro frugare nelle loro borse: l’ironia entra a far parte del racconto. E forse da questo punto di vista il caso più curioso è quello della Natività che dipinge Tiziano a metà Cinquecento destinandola a Diane de Poitiers, la quale purtroppo muore prima di poterla ricevere – e il suo amante ufficiale re Enrico II non la ritira. Tiziano aveva un grande affetto per i cagnetti e guadagnava molto vendendo pali di legno che produceva in Cadore. Aveva quindi piazzato dinnanzi al centro della composizione un palo e un cagnetto che alza la gamba compiendo con senso di assoluto realismo il gesto che tutti i cani maschi compiono quando incontrano un palo. Il quadro invenduto fu fortunatamente ceduto successivamente al cardinal Federico Borromeo, noto per il suo buon gusto, e preservato all’Ambrosiana. Il cagnetto indecente fu ricoperto da una inspiegabile pietra per celarlo; solo un restauro recente gli ha reso la libertà riequilibrando il capolavoro. Ne sarà felice san Francesco che gli animali li amava sul serio.