Mirella Poggialini aveva un dono particolare: era sempre lei, “la signora Mirella”, come la chiamavano lettori e spettatori, ma era anche molteplice, cangiante. Sorprendeva sempre. Non cambiava il carattere, non mutavano le convinzioni, non veniva meno la fede che, specie negli ultimi anni, aveva assunto i tratti di un’inesausta lotta con Dio (una lotta dolce, però, tanto simile al duello che Giacobbe ingaggia con l’angelo). E il colpo di scena era sempre in agguato. Un’idea controcorrente, una citazione imprevista. Mirella restava Mirella, non ci si poteva sbagliare. Eppure era più di quello che si vedeva, più di quello che si leggeva. Indossava con determinazione un corpo che si era fatto sempre più minuto, segnato dalla malattia e nello stesso tempo ancora indomabile. Solo qualche settimana fa, alla vigilia dell’ennesimo intervento chirurgico, aveva confessato di avere paura. Era la prima volta che lo ammetteva. Forse lei, che diffidava dei presagi, ne aveva appena ricevuto uno. È morta domenica 9 novembre, mentre il mondo celebrava i 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino (i funerali si svolgeranno domani alle 10 presso la Pieve della Sagra, in piazzale Re Astolfo a Carpi, in provincia di Modena) Una coincidenza che, tutto sommato, non le sarebbe dispiaciuta.Di famiglia toscana, classe 1936, non aveva mai fatto mistero di essere una libertaria, con l’aggiunta di un filo di anarchia sfoggiato come se fosse un filo di perle. La sua formazione di storica dell’arte non l’abbandonava mai: «Mi occupo di immagini da sempre – diceva – non ho fatto altro per tutta la vita». All’inizio erano stati i dipinti dei divisionisti italiani tra Otto e Novecento. Angelo Barabino, per esempio, il pittore piemontese al quale aveva dedicato una serie di importanti saggi nel periodo in cui, allieva di Gian Alberto Dell’Acqua, aveva studiato e insegnato alla Cattolica di Milano. Il passaggio al giornalismo era arrivato verso la fine degli anni Settanta. Nel suo lavoro per
Avvenire non aveva smesso di occuparsi di arte (lo ha fatto fino a pochi mesi fa, con puntuali corrispondenze per Radio InBlu), ma la sua attenzione aveva cominciato a focalizzarsi sulle immagini in movimento. Scritte benissimo, in un italiano limpido e mai compiaciuto, le sue cronache cinematografiche sapevano mettere a fuoco il nucleo drammatico di un film, senza tuttavia rinunciare ad acute osservazioni di natura tecnica. Un metodo lei stessa riassumeva in poche parole, nelle quali risuonava la sua sapienza di insegnante e di animatrice culturale (è stata a lungo una presenza fissa del Centro San Fedele di Milano): «A importare non è tanto il
che cosa, quanto il
come. È sempre il modo in cui si affronta un problema a fare la differenza». Quella della televisione era stata, per certi aspetti, una scelta obbligata, ma non un ripiego. Negli anni Novanta, quando la salute iniziava a darle più di una preoccupazione, aveva trovato il modo di lavorare da casa, trasformando la casa stessa in una specie di laboratorio dell’audiovisivo. Tre o quattro televisori dislocati nelle varie stanze, videoregistratori, decoder a volontà. Nel 2001, anno del suo debutto in tv come opinionista del “Grande Talk” sull’allora SAT2000, era già un’autorità. Da allora la sua figura è divenuta sempre più popolare, anche grazie alla collaborazione a “Tv Sorrisi e Canzoni”. Dieci anni esatti di avventura televisiva, prima a fianco di Massimo Bernardini, poi in collaborazione con me e con gli altri amici che, tra Tv2000 e Università Cattolica, hanno contribuito a mantenere viva la trasmissione. Chiusa nel 2011 la stagione del “Grande Talk”, Mirella Poggialini aveva continuato ad apparire con regolarità su Tv2000, così come a firmare la sua rubrica su queste pagine, il temutissimo e apprezzatissimo “Indice” di cui era titolare dall’autunno del 1997. Raccontata da lei, la televisione italiana sembrava davvero il romanzo corale di una nazione nella quale, di solito, ognuno preferisce cantare per conto proprio. Questo accadeva perché a scrivere era una narratrice di rango, come “la signora Mirella” aveva dimostrato nel diario della propria malattia tenuto nel 2004 su “Avvenire” sotto lo pseudonimo di Francesca. Prima ancora, nel 1991, aveva pubblicato
Lo specchio del re, un volume di racconti che potevano colpire per la loro inattesa durezza. Ma era lo stile – inconfondibile – a conquistare. Il
come, più del
che cosa.