«The winner is... Jaume Plensa!». Quando nella Freedom Tower di Miami lunedì sera viene pronunciato il nome dello scultore catalano, la gioia è grande. Anche perché il
Global Fine Art Awards – un «Oscar» delle arti che valuta ogni anno oltre mille mostre e 200 musei – per la prima volta premia un’installazione collocata in una chiesa.L’opera di Plensa, famoso nel mondo per le sue sculture di grandi dimensioni, è stata esposta per 7 mesi nella basilica palladiana di San Giorgio Maggiore a Venezia, evento collaterale tra i più affascinanti e ammirati della Biennale 2015. L’installazione è una conversazione tra una grande mano benedicente (
Together) – sospesa sotto la cupola di fronte all’altare (resterà in basilica per tutto il Giubileo) – e una testa (
Mist, alta oltre 5 metri), posta nel centro della navata maggiore.Il volto è modellato, intrecciando fili di acciaio inossidabile, sull’immagine di una ragazza di origine cinese-spagnola: metafora incarnata dell’incontro di mondi lontani e culture diverse, ma anche omaggio a Venezia, per secoli crocevia tra Oriente e Occidente. Ed è l’immagine della speranza di un incontro nel segno della pace tra i popoli. «
Mist è un territorio di sogno e immaginazione – dice Clare Lilley, curatrice dell’esposizione – in cui le persone si riuniscono per condividere un senso comune di umanità e insieme la spiritualità che questo luo- go sacro e millenario trasmette. Le opere di Plensa per l’Isola di San Giorgio sono testimonianza della sua acuta comprensione di misura e spazio. Le sue sculture non si impongono su questi spazi storici. Piuttosto catturano e riflettono la luce reale e le ombre al loro interno così da comunicare un linguaggio metaforico». In
Together la mano è modellata su quella dell’artista stesso nel gesto della benedizione ed è formata dai caratteri di 8 alfabeti – arabo, cinese, cirillico, greco, aramaico, hindi, giapponese e latino – metafora delle diverse culture, della possibilità del dialogo nella ricchezza della differenza e insieme del potere creativo della parola e della Creazione stessa. Plensa riprende un soggetto, dipinto 40 mila anni fa nella grotta di Sulawesi, e riesce a dargli una forza iconica straordinaria.«Sono più interessato allo spirito che non al corpo – dice l’artista –. Ma non possiamo parlare dell’anima senza parlare del suo contenitore e mentre cerchiamo di comprendere il corpo impariamo sempre più a conoscere l’anima che lo vivifica». E questo dialogo tra corpo e anima – tra il volto dagli occhi socchiusi in meditazione e dalle grandi orecchie, segno del desiderio di ascolto della Parola, e la mano che benedice e insieme attrae la creatura al Creatore – culmina con il
Kyriale: il manoscritto miniato del XVI secolo, proprietà dell’abbazia di San Giorgio Maggiore e recentemente restaurato, esposto sul leggio grande del coro dietro l’altare maggiore diventa l’ultima tappa del percorso artistico. A ritirare il
Global Fine Art Awards, insieme a Plensa, un monaco in rappresentanza dell’abbazia benedettina di San Giorgio e Carmelo Grasso, presidente della
Benedicti Claustra onlus: i protagonisti di questo rinnovato dialogo tra gli artisti della contemporaneità e il sacro. Un dialogo che in passato ha coinvolto altri protagonisti dell’arte e dell’architettura contemporanea, come Anish Kapoor e John Pawson, e che si confronta, con creatività e rispetto, con una lunga storia: l’abbazia è stata fondata nel X secolo. E con grandissimi maestri: da Andrea Palladio che nella Basilica ha voluto incarnare la sua idea di purezza e perfezione dello spazio sacro alle opere di artisti come Jacopo Tintoretto – che qui ha realizzato due capolavori: le immense (per misura, certo, ma più ancora per la capacità di cogliere il mistero nel segno della bellezza) tele dell’«Ultima Cena» e della «Raccolta della manna» – il figlio Domenico, Sebastiano Ricci, Palma il Giovane, Jacopo e Leandro da Bassano… E poi Vittore Carpaccio con il «San Giorgio» che domina la Sala del Conclave (qui nel 1800 venne eletto papa Pio VII) e Paolo Veronese che non c’è più: le sue «Nozze di Cana» trafugate da Napoleone hanno trovato casa al Louvre, lasciando un gran vuoto nel refettorio palladiano.