martedì 23 dicembre 2008
Dopo le leggi razziali del 1938 il Papa rivelò agli intimi che voleva fare «una cosa di cui l’Italia si sarebbe ricordata un pezzo». Molte fonti diplomatiche confermano le forti proteste vaticane dopo i decreti sulla razza: «Il Santo Padre si sente mal ricompensato di tutto ciò che ha fatto per l’Italia».
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È sempre delicata la distinzione tra la storia e l’uso politico-diplomatico che se ne fa. Le recenti parole del presidente della Camera Gianfranco Fini sulla presunte acquiescenza della Chiesa verso le leggi razziali non sono solo chiave di lettura di un’eredità politica ancora difficile da gestire. Certo, il peso dell’ideologia fascista fu così schiacciante e devastante che si spiegano molte cose della storia italiana, comprese le leggi del 1938. Vi fu un adeguamento della società italiana, e con essa di molte frange del cattolicesimo, rispetto alla deriva razzistica di Mussolini. Mai negato. Ma sarebbero state possibili le leggi razziali se l’Italia nel 1938 non fosse stata governata dal totalitarismo fascista? Come ha scritto Walter Veltroni, nella prefazione al recentissimo libro 1938. L’invenzione del nemico curato da Tonino Tosto, «il fascismo fu una dittatura» che «per più di vent’anni tolse ciò che di più prezioso un popolo ha, la libertà». Ecco perché l’ideologia fascista ebbe un ruolo centrale nel varo delle leggi razziali e perché – al contrario di quanto ha detto Fini – essa ne spiega da sola l’infamia. Il maggiore storico del fascismo, Renzo De Felice, ha riconosciuto che «la prima presa di posizione ufficiale contro il razzismo fascista» fu di Pio XI, nel famoso discorso del 28 luglio 1938 agli alunni di Propaganda Fide (quello del razzismo fascista estraneo all’Italia e biasimevole imitazione del nazismo). Ma in verità il Vaticano aveva già detto la sua, con un decreto del Sant’Uffizio in cui si condannava «l’odio contro il popolo una volta eletto da Dio: quell’odio appunto che dal popolo suol essere ora inteso col termine di antisemitismo». Tale decreto fu approvato da Pio XI nell’udienza del 22 marzo 1928 e pubblicato il 25 successivo. La prima presa di posizione ufficiale vaticana risale quindi a oltre un decennio prima delle Leggi razziali italiane. Ma vediamo sotto quali altri profili il giudizio di Fini può essere discusso. Il 24 luglio 1938, l’ambasciatore americano in Italia Phillips comunicava al suo governo che il 2 precedente l’Osservatore Romano aveva riportato un discorso diffuso di Pio XI ai Direttori del Movimento per la Gioventù cattolica, osservando che «l’uso della parola cattolico significava universale e non era né razziale, né nazionalista, né separatista» e che per il Papa «c’era qualcosa di particolarmente detestabile circa questo spirito di separatismo e di esasperato nazionalismo». Sintomatico è il resoconto del rappresentante italiano a Washington: «La parola papale, la questione razziale, i nostri legami politici con Berlino, l’assenza di reazioni italiane alle pretese persecuzioni naziste dei cattolici in Germania e in Austria, sono stati elementi dissolventi delle già esistenti simpatie a nostro favore e determinanti di un atteggiamento di sempre più netto dissenso verso i regimi chiamati dittatoriali senza le discriminazioni fra Italia, Germania e Russia che a nostro vantaggio venivano fatte fino a poco tempo addietro». E il 5 novembre 1938, il sottosegretario americano Welles dava il suo memento all’ambasciatore italiano: il Vaticano aveva pubblicamente dichiarato che gli esseri umani non dovevano essere discriminati «in ragione della loro fede religiosa e delle loro origini razziali». Il 12 novembre era la volta dell’ambasciatore italiano in Vaticano, che così scriveva a Ciano: «C’è da prevedere che il Papa faccia dirigere all’Eccellenza Vostra una nota di protesta in seguito alla pubblicazione dello schema di decreto-legge per la difesa della razza. È pure probabile che, malgrado dei passi da me fatti presso il Cardinale Segretario di Stato, il Pontefice formuli una protesta orale durante i ricevimenti che accorda giornalmente». Un appunto della Segreteria di Stato del 14 novembre conferma quanto sopra: «In seguito alla pubblicazione del Decreto-Legge approvato il 10 novembre scorso dal Consiglio dei Ministri – vi si legge – il Cardinale Segretario di Stato (Eugenio Pacelli, futuro Pio XII, ndr), in esecuzione degli ordini del Santo Padre, ha indirizzato ieri a S.E. il  signor Ambasciatore d’Italia una Nota di protesta». «Il Santo Padre attende la risposta del Re – chiosava Pacelli a margine di una conversazione col Papa –. E ripetere che Mussolini pensi bene quello che fa: deve sapere che sono molti gli italiani, anche in alto, malcontenti di Mussolini. È un vulnus al Concordato. Il Santo Padre non si presterà in nessun modo». Non deve quindi meravigliare che l’ambasciatore italiano in Vaticano, il 12 dicembre 1938 (ossia a quasi un mese dal decreto sulla difesa della razza), così scrivesse: «Il nostro atteggiamento riguardo alla questione della razza, e specialmente verso gli ebrei, ha avuto forte ripercussione nel Sacro Collegio che deve considerarsi – ora – in maggioranza poco benevolo verso il Fascismo». In Curia si accusava addirittura Pio XI di raccogliere i frutti della sua condiscendenza verso il fascismo. «Il Cardinale Pizzardo – proseguiva l’ambasciatore – è uno di quei Porporati che ha subito forti rampogne dal Papa, ma ne ha avuto pure qualche confidenza». Quale? Che il Papa si sentiva «male ricompensato di tutto quello che ha fatto per l’Italia», turbato, sul finire della vita, per «non avere compiuto interamente il proprio dovere, per essersi lasciato trasportare dall’affetto nutrito per l’Italia sua Patria». Nondimeno, l’ambasciatore avvertiva Ciano che il Papa minacciava «di fare, prima di morire, cosa della quale l’Italia si sarebbe ricordata per un pezzo... Fra le eventualità possibili c’è quella di un’Enciclica contro il fascismo o addirittura della condanna del Fascismo». Se c’è un aspetto di Pio XI che si ricorda più spesso sui giornali è proprio questo delle progettate condanne del razzismo e del fascismo, alla vigilia della sua morte. Egli concepì questi piani proprio a causa delle leggi razziali, criticate non soltanto alla luce del Concordato del 1929. Ciò è confermato non solo dalle fonti vaticane, ma anche da quelle italiane. Non a caso il maresciallo Pétain, presidente della Francia collaborazionista di Vichy, a metà del 1941 temeva che Pio XII potesse opporsi alle leggi razziali francesi, proprio come il predecessore aveva fatto con quelle italiane. La protesta infatti arrivò, ed è documentata dalle fonti americane: «È stata ricevuta conferma da un funzionario amico – scriveva il 7 agosto 1942 un diplomatico in Svizzera al suo governo – del rapporto secondo cui il Nunzio papale ha protestato presso il Maresciallo (Pétain, ndr) circa una settimana fa rispetto al trattamento degli ebrei in Francia». Che Pio XII abbia raccolto e serbato intatta l’eredità del suo predecessore (pur se in un contesto diverso) non vi è il minimo dubbio. Come nessun dubbio vi è sul fatto che l’antirazzismo e la condanna dell’antisemitismo ispirarono l’atteggiamento generale del Vaticano e della Chiesa cattolica (salvo dolorose deviazioni, peraltro mai negate o taciute), prima e durante la seconda guerra mondiale.
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