Per una sorta di fatale rassegnazione, ancora oggi deve sopportare che lo chiamino, a piacimento, Pintoricchio o Pinturicchio. A me, francamente, piace Pinturicchio. Si dirà che una vocale non fa grande differenza; all’orecchio, però, questa differenza suona profonda come un solco che separa una fama negativa dal lento, ma pervicace, lavoro critico che cerca di riportare da qualche decennio Bernardino di Betto Betti nel posto che gli compete e che in vita gli veniva riconosciuto, ovvero una testa di serie della pittura rinascimentale. Ma già Cesare Brandi, nel 1955, per il centenario della nascita notava che – appunto
fatalmente – le celebrazioni venivano con un anno di ritardo (il pittore nacque a Perugia nel 1454), il che, diceva Brandi, «dimostra, fatalmente più che intenzionalmente, come il nome del Pinturicchio non sia di quelli che hanno, nel nostro tempo, un’attualità immediata, un riscontro insopprimibile », in altre parole era «fuori moda». Si era affrettato Vasari a scrivere, nella prima edizione delle
Vite, che il “piccolo pittore” (da qui il nome Pinturicchio, ma la definizione si riferisce al suo aspetto fisico minuto, non alle sue capacità), era uno da poco, e non bastarono i quasi vent’anni trascorsi per la seconda edizione nel 1568 a migliorarne il giudizio. Se, per Brandi, Pinturicchio era un pittore da non strapparsi i capelli e «fuori moda», bisogna dire che il massimo di notorietà presso i comuni mortali gli venne per vie traverse, quando l’Avvocato disse che Alessandro Del Piero gli ricordava Pinturicchio, ma – precisava – «adesso è Godot», cioè colui che non arriva più. Va bene, e Pinturicchio invece? Anche lui arrancava nel riguadagnare quei meriti che papi e cardinali gli avevano riconosciuto affidandogli opere in Vaticano e, poi, a Siena. Possiamo pensare che il nome Pinturicchio avesse, nella testa dell’Avvocato, un suono particolare, come di un folletto biricchino che con piccoli ma calibrati tocchi tira fuori un capolavoro. Il fatto è che Pinturicchio, quello vero, ancora agli inizi del Novecento soffriva l’accusa di essere uno che riempie, che mette «roba sopra roba». Brandi, senza dimenticarsene, tuttavia notava che Pinturicchio non è uno che racconta, è uno che decora ed esce dagli schemi: «L’effrazione che il Pinturicchio produce in certi schemi tradizionali, sembra una folata di vento fresco… il Berenson parla di pittura di genere. Ma non è una dizione a proposito. Codesti motivi sono, sì, nuovi, introdotti di colpo, senza trafila iconografica, ma sono subito disseccati, appaiono già un po’ grinzosi, come l’uva secca. Nel senso che non intendono affatto di favorire un grammo di più di realtà esistenziale, e il momento di intimismo da cui provengono risulta altrettanto remoto, in relazione all’immagine, delle teste alate di cherubini che punteggiano i cieli senza distanza. E dunque questo grande decoratore, che poi dovrebbe essere un narratore, non narra quasi niente o il meno possibile. Il che trova aperto riscontro nel paesaggio... Il Pinturicchio, in quel paese peruginesco, volutamente spolpo, genericamente verde e boccheggiante all’orizzonte di un cielo di diaspro, si dà senza tregua a rimboscare, e l’infittisce di tutti gli alberi che conosce o inventa, e di quanti fiori e quante erbe...». La prosa di Brandi meritava la citazione, e l’osservazione sugli alberelli fronzuti del Pinturicchio, casca, come si suol dire, a pennello. Se ne vedono alcuni deliziosamente diafani nel paesaggio che fa da sfondo alla pala della
Vergine Assunta tra i santi Gregorio Magno e Benedetto, attorno alla quale si dipanata una piccola mostra della Pinacoteca civica di San Gimignano. Nelle stanze del Museo, alle cui pareti si trovano opere del XIV e XV secolo, anche due di Benozzo Gozzoli, che fu tra gli artisti su cui il Pinturicchio si formò, sono esposte cinque tavole del pittore perugino (o con aiuti di bottega), in particolare quel tondo della
Sacra Famiglia che Brandi cita come una delle opere emblematiche di quella «effrazione». Basta guardare le gambotte e la figura tarchiata del san Giovannino che sembra fatta apposta per esaltare la bellezza angelica del Gesù bambino che gli sta accanto, per rendersi conto che Pinturicchio non è affatto un mestierante senza genio. E sullo sfondo ancora alberelli, e un tipico paesaggio dal tono, come diceva Brandi, perfetto e tuttavia privo di trasporti emotivi. Un paesaggio, ecco, a suo modo mentale, ma in senso decorativo, come complemento quasi grafico, alle figure in primo piano. Uno stile che Pinturicchio comincia a definire fin da giovane sulle innovazioni che venivano da Firenze, in particolare dalla lezione del Verrocchio, ma anche sull’impostazione “ferma” e luminosa della pittura pierfrancescana. E un peso ebbe sicuramente, poi, la frequentazione di Mantegna a Roma. Il successo venne appunto quando Pinturicchio, al seguito di Perugino, approdò a Roma per collaborare agli affreschi nella Sistima, ma il primo impegno importante furono le
Storie di San Bernardino all’Aracoeli. La sua carriera ebbe un’incentivazione notevole con l’elezione a papa di Innocenzo VIII, che gli commissionò le
Vedute delle città italianenel Palazzo Apostolico, e poi coi lavori richiesti dai Della Rovere, in particolare a Santa Maria del Popolo. La fine del Quattrocento lo vede pittore di successo. A Siena, infine, arriva su richiesta del cardinale Francesco Piccolomini Todeschini (poi Pio III), che gli affida la decorazione, dentro il Duomo, della Libreria Piccolomini (quella di Enea), che lo occupa alcuni anni. L’Assunzione della Vergine, commissionata dagli olivetani di Barbiano, sembra essere la sua ultima opera (morirà a 61 anni nel 1513). Gli fu commissionata nel 1510. Aveva lavorato già alla
Incoronazione della Vergine oggi in Vaticano (che inizialmente doveva essere un’Assunzione), una pala che sembra davvero nascere dall’horror
vacui: la parte bassa con diciassette figure, tra cui gli apostoli; la parte alta con la grande mandorla che contiene il Cristo e la Vergine e ai lati due angeli musicanti; a separare le due metà una residua striscia pittorica che mostra un paesaggio zeppo di particolari. Ecco, al contrario di questa pala e dell’Assunzione oggi a Capodimonte (che ha un timbro raffaellesco), quella di Barbiano libera lo spazio e da aria allo sfondo, con uno stupendo paesaggio che sembra ricapitolare tutti quelli del Pinturicchio. Ed è come se, improvvisamente, in quest’ultima opera Pinturicchio immaginasse un viatico verso un altro mondo. Come un congedo. Vasari malignava su di lui definendolo avido e strano, e accreditando la storia che fosse morto per la rabbia di aver perduto un’ingente somma di denaro. Certo è che la ricchezza, che aveva accumulato (e questo sfata la diceria del Vasari), contrastava con una vicenda familiare che lo vedeva trascurato dalla moglie (che lo tradiva) e dai cinque figli. Ma pare che, sul letto di morte, modificasse il testamento a favore della moglie, che però non permetteva a nessuno di avvicinarlo. Insomma, a pensar male si fa peccato, ma qualche volta è inevitabile, conoscendo i limiti della natura umana.