venerdì 1 agosto 2014
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Su di lui in tanti hanno cambiato idea. E la stanno cambiando. Ad esempio Carlo Bo, autorevole critico letterario Italiano, voce cattolica tra le più ascoltate in ambiente laico, dopo aver ritenuto poco importante Péguy, in un saggio scritto in età avanzata si accorse di essersi sbagliato. Tardi ma almeno lui, sincero, lo scrisse. Molti no. E ancora fanno finta che non esista. In quanti corsi di francesistica in Italia ( ma anche a Parigi) si sosta intorno al nome di Péguy? Non ha fortuna tra quelle che lui chiamava 'le schede' dei professori. Ma la gente che lo ascolta rimane tutta segnata. Charles Péguy è una strana dinamo di bicicletta. È insomma qualcosa di simile a quel marchingegno che ancora si usa e che, al muoversi delle ruote e per attrito produce energia per illuminare la strada. La sua poesia e la sua figura sono così. Una dinamo da bicicletta. O forse una pala di un mulino ad acqua. La sua voce e il suo stile, movimentanti e originali, sono mossi da qualcosa di potente e sempre fresco: come la pedalata di un ragazzo innamorato, o il fiume che scende verso la valle. Morì nel ’14 con una palla in fronte in mezzo a tanti sconosciuti nella battaglia della Marna. E in vita fu tante cose: editore, direttore, saggista, socialista, cattolico escluso dai sacramenti, polemista. Soprattutto fu un poeta. E lo fu di opere che vanno dall’altra parte rispetto al secolo in cui a vissuto. E infatti non ha avuto grande fortuna come autore, secondo i criteri della critica fatta a schede, ma la sua voce ha interessato lettori grandi e vivi come Leo Spitzer e Ezio Raimondi, per citare due nomi. Mentre il secolo andava - passando per tutte le illusioni di fine ’800 e i bagliori psichici e militari degli inizi ’900- a produrre i grandi totalitarismi della ideologia e della disperazione, e poi del nichilismo, il poeta Péguy imprimeva il ritmo della pedalata o del mulino a versi che parlano di speranza, di paese che lavora e costruisce, di onore del lavoro ben fatto, di carità e fede, e di uomini che sanno attraversare il dolore e la fatica senza mai pensare che la vita sia una fregatura. Così mentre le accademie, e prima la Sorbona a cui rivolgeva i suoi saggi contro 'l’intellettuale moderno' quasi lo ignorano - del resto sono esattamente quegli 'intellettuali moderni' da lui ritratti che ancora reggono la cultura europea, e i frutti si vedono - uomini nutriti di tradizioni diverse, la socialista, la cattolica, hanno trovato nutrimento e provocazione nelle sue riflessioni contro 'il sistema' del denaro, del pensiero che nega gli avvenimenti, e contro ogni lettura 'sistematica' dell’uomo che neghi la natura di essere bisognoso. Perché il fuoco della riflessione e della poesia di Péguy sta in questo realismo intorno alla natura umana. Che lo pone, sorprendendo chi non ha tale realismo, sempre più avanti nella lettura dei problemi culturali dell’epoca sua (e nostra). O meglio, visto che 'avanti' non ha senso come categoria intellettuale, accade che Péguy, si trovi sempre più dentro i problemi, e autenticamente attento ai fattori in gioco. L’uomo colto nella sua natura di bisogno (che è 'di più' del desiderio e, per così dire, lo comprende, essendo più mordente) è il punto duro, il diamante della visione di Pèguy. Questo sguardo lo colloca subito nella corrente poco simpatica a coloro che hanno fastidio, o addirittura spavento, per il bisogno e preferiscono dilettarsi con l’illusione o le diramazioni meno costose e mordenti del desiderio. C’è stato un fastidio lungo un secolo per l’uomo reale da parte degli intellettuali. Capaci ancora oggi di censurare e non impegnarsi con i problemi veri dell’uomo reale - in un continuo ormai patetico tradimento. Basti vedere i titoli dei festival letterari o culturali nel nostro paese, per vedere quanto siano quasi tutti da Paese dei balocchi. Probabilmente nessuno di coloro che li redige viaggia da su un treno regionale da Firenze in giù. Di certo Péguy sta poco simpatico a chi ritiene l’uomo una macchina fondata sul desiderio di potenza, il cui nome attuale è 'autodeterminazione'. Dal nucleo dell’uomo come bisogno, nasce la sua straordinaria curiosità di avviare percorsi di pensiero avventurosi e controcorrente circa la presunzione dell’intellettuale, la riduzione di ogni cosa a 'argent', denaro, o circa le mutazioni antropologiche (anticipando Pasolini) del popolo, o circa il deficit di attendibilità della 'Storia' che gli intellettuali o i vincitori scrivono con la maiuscola come giudice delle vicende umane. Compi un lavoro defatigante e duro. In mezzo a infinite difficoltà personali, economiche, familiari, politiche. Ebbe un carattere forte. Ebbe coraggio. E soprattutto una dote - generosamente impiegata - di poeta, che ha fatto di lui una delle voci più originali del ’900. E se il pensatore ha dato di che riflettere a uomini di cultura - da Gilles Deleuze a Alain Finkielkraut, da Gramsci a Rodano - la sua poesia magnetica, commossa, e macinante o pedalante, ha parlato a un sacco di gente. In tutto il mondo. Resta impossibile da catalogare nelle banali schedature accademiche: era un avanguardista? Uno sperimentale? Un lirico? O un antilirico ? O era tutte queste cose? Era una pedalata di ragazzo, una ruota e una macina ad acqua. Era un innamorato e un creatore di farina. Uno stile che colpisce il lettore o l’ascoltatore, una voce che cerca e cresce. Che nelle sue opere, come i memorabili testi chiamati Portici quasi a dire di un movimento ad archi, di un cammino a riprese e a volute, dedicati alla speranza, a Giovanna d’Arco, alla carità, cattura e fa vorticare il pensiero, i sensi, le emozioni. Per mettere a fuoco l’umano e quel che chiamava 'l’incastro' del divino con l’umano. Il grande teologo Von Balthasar ha scritto che questo uomo escluso dai sacramenti, moralmente irregolare, è colui che ha parlato 'più cristiano' di tutti. Giovanni Paolo II ha visto in lui di una teologia vissuta. E don Giussani ha fatto ascoltare a migliaia di giovani i suoi testi durante la Via Crucis. Così questo poeta s’è fatto compagno di tanti, e occasione per scoprire fuori da schemi opprimenti la pedalata ragazzesca, il fruscio d’acqua di mulino che sono il rumore di fondo del cristianesimo.
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