Propugnare una qualche forma di “personalismo” oggi può suonare come una battaglia di retroguardia, se non proprio come una nostalgia. Il Personalismo come movimento filosofico, o almeno come quel movimento che ha rivendicato questo nome come propria etichetta, ha attraversato la prima metà del Novecento ed è stato sostanzialmente limitato ad ambienti intrecciati con il cattolicesimo francese. Se si volesse riassumere la storia del personalismo inteso in modo così ristretto (cioè come il movimento francese del primo Novecento) si traccerebbe un percorso che va sostanzialmente da Charles Renouvier (
Le Personnalisme, 1903), alla fondazione della rivista “Esprit” nel 1932, alle opere di Emmanuel Mounier (
Le personnalisme, 1950) e Jacques Maritain (
La personne et le bien commun, 1947), fino ai primi anni Sessanta, con un elogio funebre, piuttosto tardivo, intonato da Paul Ricoeur (
Meurt le personnalisme, revient la personne... in “Esprit”, 1983).Qui non intendo tracciare questa storia, né delineare il quadro ben più ampio dei “personalismi” che tra secondo Ottocento e Novecento si sono distribuiti su almeno due continenti secondo forme molto diverse tra di loro. Quel che intendo fare è semplicemente collocare la proposta di un personalismo critico nei confronti sia di queste tradizioni passate sia soprattutto del dibattito filosofico odierno. Il personalismo, in particolare quello sostenuto da Mounier e dagli intellettuali riuniti intorno a “Esprit”, si è sempre proposto come una forma di realismo, in opposizione tanto all’astrattezza idealistica quanto al riduzionismo positivistico. Ora, dal momento che una rinascita del realismo è venuta emergendo negli ultimi venti anni come reazione a una certa deriva ermeneutica da un lato (il lato continentale) e al prevalere di una prospettiva eliminativista dall’altro (il lato analitico), non è anacronistico chiedersi se in questa ripresa non solo trovi spazio ma sia in qualche modo inevitabile riqualificare la nozione di persona, al di là delle ipoteche metafisiche cui la teneva legata un certo contesto teorico. Detto più precisamente: nella resistenza all’uso dell’idea di persona che si registra in molti contesti filosofici (per non essere tacciati di cattolicesimo filosofico, probabilmente) gioca un interdetto che non ha ragion d’essere, soprattutto se cerchiamo una nozione con cui esprimere la complessità del reale senza svuotarla in concetti puri o precipitarla in riduzioni fisicaliste.I personalismi sono stati un’espressione precipua della cultura otto-novecentesca, ma costituiscono evidentemente un aspetto della più ampia cultura tipicamente occidentale, nella quale l’idea di persona veicola elementi tanto antropologici quanto psicologici, etici, giuridici e politici. Per questo, sarà bene essere estremamente chiari: non c’è alcuna esclusiva teologica nell’origine dell’idea di persona. A quel concetto contribuirono anche e soprattutto, e prima delle dispute trinitarie, il teatro greco e il diritto romano, per citare solo le origini; e gli sviluppi secolari dell’idea di persona sono il tessuto stesso della cultura laica europea almeno dal Settecento in avanti. Non è affatto un caso che i diritti richiamati nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 siano espressamente riferiti alla persona (art. 3, dove si parla di vita, integrità e sicurezza «della propria persona») e alla personalità giuridica (art. 6) pur nel contesto di un documento che cerca sistematicamente di evitare il termine, sostituito per lo più con «individuo»: la nozione di persona offre infatti da un lato l’aggancio alla concretezza della presenza corporea («nella propria persona», come avviene anche in Dante – Inferno, V – e nella seconda formula dell’imperativo categorico kantiano), dall’altro il riferimento a un orizzonte normativo (la titolarità di diritti, la dignità, la libertà), restituendo così proprio la tensione obiettivamente inscritta nella dinamica vitale propria degli esseri umani.I personalismi nati tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento sono molto eterogenei. Tuttavia, essi hanno un preciso tratto in comune: quello di proporsi come una sorta di terza via filosofica (e in taluni casi anche politica) tra le due polarizzazioni che hanno caratterizzato la filosofia ottocentesca (e gran parte della cultura novecentesca). Si tratta dell’opposizione tra l’idealismo da un lato e il positivismo dall’altro, ovvero tra il primato assoluto dell’autocoscienza come forma originaria e destinale dell’essere e la riconduzione sistematica di tutto il reale alla dimensione sensibile, quantificabile e matematizzabile. In altri termini, tra storicismo e naturalismo. La chiave di volta del personalismo è quindi un’esplicita professione di realismo come alternativa tanto all’idealismo quanto al materialismo [...].Ora però che da più parti si invoca la fine del post-modernismo e il ritorno del realismo in ontologia, in epistemologia e in etica, appare piuttosto naturale il tentativo di riportare una concezione realistica della persona, non spiritualista ma nemmeno fisicalista, al centro del dibattito. Il personalismo resta una prospettiva plurale e non omogenea. Poiché, come si è detto, non è una scuola filosofica e non si può identificare in toto ogni teoria filosofica che abbia al centro la nozione di persona con il personalismo francese della prima metà del Novecento; è possibile e certamente opportuno identificare alcune idee generali che consentono di qualificare come personalista in senso lato una teoria o una prospettiva filosofica.A tale scopo, indicherei tre tesi come qualificanti, benché certo non esclusive, di un punto di vista personalistico: 1. La critica tanto dell’idealismo quanto del fisicalismo come prospettive non in grado di descrivere e comprendere pienamente né la realtà naturale, né la vita umana nelle sue dimensioni individuale, sociale, politica e morale. In generale, la critica a ogni forma di dualismo. 2. La rivendicazione di un “realismo della persona” basato sull’idea che esistono anzitutto le persone e che la realtà che appare attraverso l’esperienza personale è indipendente da tale esperienza. Le persone interpretano il reale attraverso schemi di pensiero e modalità pratiche che rendono il mondo una rete di significati e valori che appaiono solo tramite la mediazione del pensiero, ma non sono meno reali del reale stesso, né lo esauriscono. La realtà stessa della persona, come un corpo capace di esperienza critica, sfugge sempre almeno in parte a una totale autocomprensione, benché sia in grado di una piena consapevolezza di sé. 3. Il riconoscimento delle persone come meritevoli di rispetto. E a un tempo come responsabili di un rispetto attivo non soltanto nei confronti delle altre persone ma, per gradi e in modi diversi, dell’intera realtà cui esse appartengono e nella quale operano. Questo riconoscimento prende spesso la forma della rivendicazione della dignità della persona umana e della responsabilità umana per il reale, in particolare per la vita sulla terra. Il fondamento di questa dignità e di questa responsabilità è nella libertà come autodeterminazione. La libertà delle persone è reale quanto le cose, i corpi e le istituzioni sociali.