«Il suo romanzo storico non è solo un bel lavoro artistico, ma è un vero monumento, che occupa nella storia dell’arte quel medesimo luogo che la
Divina Commedia e l’
Orlando Furioso»: così scrive De Sanctis nell’introduzione ai
Promessi sposi. Tale impegnata e così netta elezione è motivata con l’ingresso, per la prima volta nella nostra letteratura, della storia e del quotidiano, del vissuto; storia e realtà vengono infine a coincidere con la scrittura. De Sanctis consacrava dunque e consegnava il romanzo alla nuova Italia: e la
Messa da requiem di Verdi (1874) nell’anniversario della morte del poeta non meno che i Cori del
Nabucco o dei
Lombardi alla prima Crociata che tanto debbono (come struttura ritmica e figurale) ai Cori dell’
Adelchi suggellavano quella funzione, civile e politica, di Manzoni e dei suoi
Promessi sposi nella costruzione dell’identità italiana. Né ostava, a quel disegno, l’evidente finalità spirituale, provvidenziale, del romanzo, poiché essa, come ancora precisava il De Sanctis, era tutta incarnata e vissuta e misurata dalla storia umana: «Così l’ideale religioso e morale che è la finalità del romanzo, l’ultimo suo risultato, va a profondarsi nella infinita varietà della esistenza particolare, attingendo in recessi inesplorati del mondo reale novità e originalità di forme e di movenze, di cui non era esempio nella nostra letteratura».Lucia, la «bella baggiana» (
I promessi sposi, cap. XXXVIII), non Beatrice la divina, non Angelica, non Armida, le seduttrici, diveniva emblema del cammino umano, essa che, alla fine del romanzo, tornava «contadina come tant’altre»: «Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevan forse che dovesse avere i capelli proprio d’oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l’uno più bello dell’altro, e che so io? Cominciarono ad alzar le spalle, ad arricciar il naso, e a dire: "eh! l’è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi, s’aspettava qualcosa di meglio. Che cos’è poi? Una contadina come tant’altre. Eh! di queste e delle meglio, ce n’è per tutto". Venendo poi a esaminarla in particolare, notavan chi un difetto, chi un altro: e ci furon fin di quelli che la trovavan brutta affatto» (cap. XXXVIII). Questa "esistenza positiva" è il lascito del Manzoni: «una poesia che abbia tutte le apparenze della storia, e una storia che abbia tutta l’efficacia della poesia, fu il sogno di Manzoni» (ancora De Sanctis). Un’eredità non solo italiana, ma europea: gli eroi del popolo, di Balzac e di Hugo, di Leskov, arriveranno un po’ più tardi, talvolta attraverso la mediazione "borghese" che fu il polo concorrente della narrazione del XIX secolo, da Goethe a Flaubert. E questo fu anche il destino del Manzoni, di una vita divisa - e lentamente e difficilmente ricomposta - tra la via materna (Giulia Beccaria, figlia di Cesare, uno dei padri dell’Illuminismo lombardo, amica dei Verri, legata al "pariniano" Carlo Imbonati a Parigi con Sophie de Condorcet e con Fauriel, che farà conoscere l’opera di Manzoni a Goethe e tradurrà subito, 1823, le tragedie di Manzoni in francese) e quella paterna, possidente lombardo, terre e dialetto, che affida il figlio, dopo la separazione, a padri somaschi e barnabiti, tra Merate e Lugano. Quella formazione, tra Parigi e la Lombardia, tra francese e il dialetto del Porta, mancava di un fulcro e venne da Manzoni lentamente trovato: dalla lirica alla tragedia, ai cori «della causa dell’umanità» (Schlegel), al romanzo, fu la conquista di un dire comune: e nel romanzo ancora successe la progressiva limatura, dal
Fermo e Lucia ai
Promessi Sposi del 1827, a quelli "italiani" del 1840, controllata sul toscano la lingua e arricchito il romanzo di una seconda trama illustrativa, quella delle incisioni eloquenti di Francesco Gonin. Fu davvero la
Biblia pauperum per l’Italia unita.Ma questa mutazione è possibile, poiché l’eroico, dal quale Manzoni pur parte, è bensì in scena, ma vinto: vinto il conte di Carmagnola, vinti Desiderio e Adelchi, vinto Napoleone dalle forze della storia; vinto l’Innominato dalla forza della Grazia. La storia così s’accampa non per illustrare le gesta dei magnanimi, ma per portarli tutti, grandi e piccoli, al «disonor del Golgota». Bisogna che la vita viva e si compia, che la spiga maturi con il loglio, che anche don Abbondio superi la prova e possa dire, sollevato e compiaciuto: «Se lo dico: il mondo non vuol finire» (cap. XXVIII). Non fu, per Manzoni, conquista facile: il mondo romantico (da Walter Scott a Chateaubriand) era ricco di modelli e di eroi: e Manzoni li assunse, a pieno contrasto: il delitto che redime: fra Cristoforo; il delitto che perde: la monaca di Monza. Vinse il Manzoni della «bella baggiana», sparì la
Digressione e l’apologo raciniano, ma sparì anche la parte più fosca, e più "romantica" della storia della Monaca di Monza: il romanzo entrava nella storia dalla parte della «picciola colonia» di esuli, di operai, «lavoratori di seta», fuggiti nel Bergamasco. Diminuiva in grandezza, cresceva in interiorità: discendeva in quell’incertezza del cuore umano, dei meandri delle intenzioni che precedono e accompagnano l’agire. Nel momento stesso in cui verrebbe più facile opporre Manzoni e Leopardi: l’uno volto verso l’infanzia e l’origine, negatore della storia e dei portati di ragione; l’altro tutto preso a scrutare nella storia, dove realtà dei fatti e vero possano coincidere; proprio in quel punto il "Tutto è male" dello
Zibaldone viene a coincidere con la manzoniana «disperazione» di una «natura umana spinta invincibilmente al male». La storia o l’origine: eredita il dilemma il nostro XXI secolo, al quale la seconda parte del XX, con le guerre, gli stermini, le bombe atomiche, i massacri, le carestie, ha aggiunto il problema - squisitamente leopardiano- della fine: sopravviveremo alla nostra malvagità? Sarebbe tuttavia vano contrapporre i due autori; tanto nella
Ginestra e così prima, nella
Appendice storica su la Colonna Infame, 1825-1827, la fine è già accaduta e continua ad accadere. Ogni istante è «sterminatore», ogni pagina di storia è la notizia e l’archivio di una fine: «e senza cercare altro, siam posteri anche noi», concluderà Manzoni (
Appendice storica su la Colonna Infame). Che cosa resta, infatti, quando più nulla è da attendere, quando tutto è finito? Appare dal fondale ciò che continua a mancarci: «Ma la vita mortal […] / Vedova è insino al fine […]» (Leopardi,
Il tramonto della luna), nient’altro che l’ignoranza di chi ha creduto conoscere: «Quella ignoranza nella quale può cadere, e cade pur troppo, l’uomo delle età più scienziate, e dalla quale può liberarsi l’uomo delle più rozze» (Si direbbe Leopardi, ed è Manzoni,
Appendice storica su la Colonna Infame).