Arriva in Italia la storia ragionata della presenza e dell’opera dell’ordine ignaziano in Argentina, scritta nel 1987 dal gesuita Jorge M. BergoglioQuando, verso il 1585, i gesuiti entrano nella nostra terra, in America è avvenuto un fatto ecclesiale significativo: la riunione del III Concilio di Lima, convocato da san Toribio de Mogrovejo. Quel concilio avrebbe segnato i lineamenti fondamentali della nostra evangelizzazione nella fedeltà al Concilio di Trento. I gesuiti, che avevano collaborato con i loro migliori teologi al Concilio tridentino, non mancarono di apportare la loro scienza ed esperienza missionaria a questo concilio regionale: basti ricordare in proposito l’insigne padre José de Acosta.La teologia tridentina avrebbe ispirato il lavoro di catechesi dei missionari gesuiti. La concezione cattolica dell’uomo ferito dal peccato, ma non completamente corrotto, diede a questo lavoro un ottimismo che valorizzava le culture indigene e uno slancio apostolico pieno di fiducia nelle possibilità di salvezza dei nostri nativi. Dal momento che la grazia salvatrice non sarebbe stata un mero titolo giuridico, esterno all’uomo, bensì una forza trasformante, e dal momento che l’uomo non ha del tutto perduto la radicale bontà che Dio Creatore ha posto nel suo cuore, non parve loro utopico lanciarsi nell’impresa di cattolicizzare un continente. E così avvenne. Poche volte una speranza è stata coronata così abbondantemente. [...]Questo ottimismo è stato realista, ha avuto presente l’esperienza umana del peccato, con la coscienza della radicale indegnità davanti alla grandezza di quel Dio che si è manifestato come Misericordia sulla croce di Cristo. Ha predicato l’immensa bontà del Signore, ma anche il prezzo del nostro peccato e la necessità di ripararvi e di estirparlo. L’aspirazione alla salvezza che freme nel cuore dell’uomo ha avuto, per i missionari, un contenuto ben preciso: essi hanno risvegliato desideri di battesimo e hanno dato a un popolo identità e senso di appartenenza.Forse non ci siamo soffermati abbastanza a riflettere su ciò che significa, quanto al riconoscimento della dignità dell’essere umano, essere chiamati figli di Dio ed esserlo realmente. Mediante la dottrina battesimale quegli indios venivano equipaggiati con il vero senso della vita: perché si combatte, quali sono gli obiettivi, che cosa si può perdere. Significava dire loro da dove venivano e verso dove andavano, significava segnare una rotta e fissare una meta. Significava consegnare loro una consapevolezza di superiorità e di superiorità schiacciante: se Dio è con noi, chi oserà contrastarci? Dio è più potente del nemico. Dio è più forte della contrarietà. Significava dire loro che vale la pena lasciarsi addomesticare da Dio per essere indomiti e invincibili tra gli uomini. Questa vocazione di sicuro trionfo acquisirà una forma devozionale nell’ossequio a coloro che hanno già raggiunto la statura definitiva: i santi. E, per evidenziare tutto ciò, a coloro che li avvicinano per chiedere la benedizione i missionari non presentano altro titolo che non sia quello di «ministri di Dio», «i Padri», o «i paí». [...]La fedeltà alla santa Madre Chiesa gerarchica informa il lavoro missionario. Aspirazioni e desideri espressi dalla Chiesa riunita nel III Concilio di Lima del 1582 si incarnano nella quotidianità del lavoro. Fedele allo spirito di Trento, il Concilio di Lima delinea l’immagine del vescovo e, di conseguenza, dei pastori che lo accompagnano nell’opera apostolica. [...]La sollecitudine pastorale condotta all’estremo di sentirsi padri avvicina i missionari ai loro figli. E il Concilio raccomanderà lo studio delle lingue native, che costituisce una seria volontà di assumere la cultura di quei popoli e di generare quei figli nella fede. Si trattava di far propria la diversità per realizzare l’autentica unità cattolica. Un’unica dottrina si esprimeva in diverse lingue. In questo modo, nel Concilio si presenta come fatta e approvata la traduzione del catechismo (quella di padre Acosta) nella lingua di Cuzco e in quella aimara, e si giunge a dire: «E affinché lo stesso frutto si ottenga negli altri popoli, che usano lingue diverse da quelle citate, incarica e raccomanda a tutti i vescovi che cerchino, ciascuno nella sua diocesi, di far tradurre da persone adeguate e pie il suddetto catechismo nelle altre lingue».All’atto pratico la serietà di questa proposta non si ferma alla traduzione dei catechismi, ma si spinge a elaborare anche le grammatiche delle lingue indigene. Mentre l’Europa protestante si disintegrava nella frattura imposta dalla coscienza individualista, la Chiesa rafforzava la diversità delle percezioni «coscienziali» dei popoli nell’unità data dalla confessione di una stessa fede. Una fede che si incentrerà nel pastore che rende visibile e traduce la forza unitiva della Coscienza superiore che ha conosciuto l’umanità: quella di Cristo.
Un’altra preoccupazione del Concilio di Lima è stata adattare la presentazione del messaggio in forme di culto che risultassero attraenti per gli indigeni. Ecco: «I vescovi e i preti devono badare con cura a far sì che vi siano scuola e cappella di cantori, e insieme musica di flauti, e zufoli, e altri strumenti adatti alle chiese. Perché è risaputo che queste nazioni di indios si attraggono e si avvicinano straordinariamente alla conoscenza e alla venerazione del sommo Dio con le cerimonie esteriori e con gli strumenti del culto divino».L’audacia missionaria non esitò a coinvolgere le mani di artigiani indigeni nell’opera di plasmare con la pittura, con la scultura e con l’architettura i grandi misteri della nostra fede cristiana. A partire da qui la forza salvifica della sofferenza di Cristo, la tenerezza di Maria, la gloria dei santi e la bruttezza del demonio hanno un colorito e un senso americani. Nei loro ornamenti i paliotti barocchi hanno accolto l’omaggio della nostra peculiare flora e fauna all’Unico Signore di tutti. [...]Una realtà diventa simbolo quando il suo peso storico è di tale statura da rafforzare il nostro presente e da aprirgli orizzonti futuri. E questo racconto [...] riguarda la fondazione della nostra Riduzione di San Francisco Javier tra i mocoví, e i due uomini che vi si stagliano come protagonisti, padre Francisco Burgés e padre Florián Paucke. Entrambi hanno amato quell’esperienza e hanno lasciato scritto ciò che hanno fatto e vissuto. Burgés avrebbe scritto in esilio la Relazione sulla fondazione del Paese di San Javier dei mocoví e Paucke l’appassionante Andata e ritorno: un soggiorno tra gli indios mocoví. [...]Chi guarda alla giustizia in un’ottica «economicista» non capirà molto di questo progetto gesuita: l’obiettivo era dar loro l’opportunità di vivere ciò che li rendeva giusti; ovvero, un modo di curare il rapporto con Dio e con la comunità, una maniera di situarsi nella natura, che aveva ripercussioni «economiche» ma non si esauriva in una «condotta economica».