venerdì 4 dicembre 2009
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Dopo Trento si sale per una serie di tornanti e si attraversano borghi che profumano delle mele della Val di Non. Uno dei suoi frutti più puri, padre Eusebio Francesco Chini maturò qui (nacque nel 1645) nel villaggio di Segno. La sua storia poco nota, perfino ai trentini, è di dominio popolare nel Sonora e in Arizona: i nomi delle due 'Vie' che tagliano questa frazione del Comune di Taio, in cui la sua figura maestosa dà il benvenuto all’uscita della provinciale con una statua (opera dei maestri scultori Livio e Giorgio Conta) che lo ritrae con un giovane indio sotto la sua ala protettiva. È l’immagine di un uomo la cui vicenda profondamente spirituale richiama al personaggio cinematografico interpretato da Robert De Niro nel film Mission. Chini è il cognome della maggior parte delle famiglie locali che sempre più stanno riscoprendo e cercando di divulgare la parabola avventurosa e profondamente cristiana di questo loro antenato. Un precursore del missionariato moderno e quasi nessuno sa che è l’unico italiano presente nel Famedio di Washington, riconosciuto come il «padre fondatore dello Stato dell’Arizona». E se la grandezza di un uomo si misura dal numero di statue che gli sono state dedicate, allora padre Chini, noto lì come padre 'Kino', è uno dei personaggi di spicco della storia oltre che dell’Arizona, del Sonora e della California. Sono i Paesi in cui arrivò dopo l’ingresso nella Compagnia di Gesù, aggiungendo al nome di Eusebio quello di Francesco, per devozione e ringraziamento a san Francesco Saverio che lo aveva miracolosamente strappato alla morte. La rinascita la consacrò alla preghiera e agli studi di filosofia, logica e teologia nelle prestigiose università tedesche di Monaco, Friburgo e Ingolstadt. In quest’ultima si sarebbe dovuto fermare per espressa richiesta del duca di Baviera, che rimase folgorato dalle lezioni di matematica del dotto 'diciottenne' che cortesemente declinò l’invito esprimendo la sua volontà di seguire le orme di san Francesco Saverio: andare nelle missioni d’Oriente. Ma la Compagnia aveva deciso che la destinazione più necessaria doveva essere la Nuova Spagna. Come Cristoforo Colombo, anch’egli dovette attendere i venti favorevoli del destino per l’imbarco. Nel frattempo ebbe modo di scrutare i cieli e nella sua permanenza a Cadice, tra il dicembre 1680 e il febbraio 1681, osservò il passaggio della cometa della quale diede un’ampia e approfondita descrizione in un testo assolutamente antesignano, Spiegazioni astronomiche. Del periodo spagnolo uno dei suoi maggiori studiosi (con Domenico Calarco), Herbert Eugene Bolton, ricorda la fitta corrispondenza con la duchessa di Aveir Arcos, un carteggio che già nel 1932 era stato venduto a una biblioteca americana «al prezzo di 235 dollari per pagina». Lettere preziose di un uomo «dal cuore in fiamme', in cui ardeva la passione per Gesù e la volontà di portare la parola di Dio tra quelle genti sfruttate e trucidate dai conquistadores. F inalmente riuscì a salpare da Siviglia e con 18 compagni raggiunse la Nuova Spagna il 3 maggio 1681. Novanta giorni per mare con vicissitudini degne della penna di Omero, come ricorda nel Neue-Welt-Bott lo scrittore Stocklein, prima dell’approdo a Vera Cruz. Da lì il gruppo dei gesuiti si frazionò, sfidando i pericoli di un mondo nuovo, talora ostile, come sperimentarono sulla loro pelle i padri Borango, Strobach e De Angelis, i martiri delle Isole Marianne. Centocinquanta anni dopo la scoperta di quel lembo di terra (ad opera di un marinaio di Cortés), padre Kino pose la sua prima base nella Bassa California. La grande sapienza geografica e astronomica che lo fece nominare 'cosmografo reale' dal viceré, gli consentirono di virare in direzione opposta e contraria ai molti studi approssimativi svolti dalle cattedre europee, dimostrando che quella californiana non era un ’isola, bensì una 'peninsula'. La riprova glie la diede la scoperta del passaggio 'via terra' e la presenza costante delle 'conchiglie azzurre'. Come l’eco del mare ascoltato da una conchiglia, il suo nome arrivò rapidamente alle orecchie di tutte le tribù disseminate nella Pimería Alta, l’attuale Sonora settentrionale e l’Arizona meridionale. Quella fascia, come ricorda ancora il Bolton, che si estendeva «dal fiume Altar, in Sonora, al Gila e dal fiume San Pedro al Golfo della California e al fiume Colorardo occidentale». Le tante e frazionate etnie Pima, ostili tra di loro e unite solo nell’astio per il feroce nemico comune degli Apache, compresero ben presto la sua santità: quella dell’uomo che andava per «essere debole tra i deboli». Come uno Zorro armato solo di Vangelo nella bisaccia, il 'Veste nera' o il 'Contadino nero', come lo chiamavano i Pima, procedeva spedito al galoppo in sella a un cavallo. È stato calcolato che nei ventiquattro anni di permanenza in quelle terre, nei suoi cinquanta viaggi di esplorazione (documentati) aveva cavalcato per almeno trentamila chilometri. Viaggi al limite della sopportazione fisica, in cui la fede e la voglia di testimoniare la presenza di Dio tra quei popoli oppressi, era più forte di qualsiasi ostacolo. Con la forza del dialogo e della parola di Dio convinse quelle genti che guardavano con crescente timore e odio gli usurpatori spagnoli e riuscì a renderli collaborativi e operosi. «L’uso sconsiderato delle armi fa fuggire i nativi, i quali si rifugiano sui monti. I metodi pacifici e gentili, insieme con la carità cristiana aiuteranno invece moltissime anime a fare ciò che sarà loro insegnato e richiesto», scriveva nel suo diario Favores Celestiales. Questo l’insegnamento di Kino che passava benedicendo e convertiva. Senza alcun tipo di scorta al seguito, superava i deserti, valicò canyon infernali, spingendosi sempre al di là di ogni frontiera, fino ad allora inesplorata, per penetrare nelle anime raccolte nelle ventisette stazioni missionarie che creò dal nulla. Del resto, come ricorda il cardinale Carlo Maria Martini, uno dei compiti principali del gesuita è proprio questo spingersi oltre: «La nozione di frontiera ha sempre attratto i gesuiti come un ostacolo da superare, un traguardo da raggiungere e da oltrepassare». Kino insegnava al popolo di Pimería ad avere cura dei propri confini territoriali, a difenderli con dignità e a curarli impiantando, in quelle terre strappate ai deserti, le colture agricole che nelle fattorie avrebbero dato il sostentamento a tutta la popolazione e impedito ai bambini di morire di fame. Ricorda il Bolton : «Il primo compito fu guadagnarsi la fiducia dei nativi e la via diretta ai loro cuori era attraverso i loro stomachi». Insegnò loro l’arte dell’allevamento del bestiame, ma soprattutto quella dell’incontro. Un maestro della tolleranza che quando veniva offeso e deriso dai nemici che non mancarono mai sul suo cammino, rispondeva con un caldo abbraccio e l’atto di umiltà: «Voi dovete essere sempre il mio carissimo padrone». Poi se ne tornava nella sua casa, alle ore di penitente preghiera nella chiesetta della città di Magdalena (ora Magdalena de Kino). I l luogo chiniano per antonomasia ancora oggi, quello in cui battezzava e spiegava agli indios la risurrezione di Cristo, aiutandosi con la metafora bizzarra delle «mosche tramortite che poi riprendono vita». Un vento caldo usciva dalle sue parole che dal Sonora arrivavano alla California fino in Arizona. Lì papa Giovanni Paolo II ritrovò i semi lasciati dal passaggio terreno (conclusosi con la morte nel 1711) di quel 'Veste nera', del quale riconobbe: «Il Vangelo ha veramente messo radici qui in Arizona ed ha prodotto frutti abbondanti… La Chiesa ha ancora bisogno di molti missionari dotati dello zelo di padre Kino».
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