Dopo la meraviglia per il processo cui assistevo domando al signore, all’operaio presso la macchina: «Ma lei che cosa fa, perché sta qui?». «Io guardo» (con un certo orgoglio). «Ma che cosa guarda?». «Io controllo - disse - che la macchina non si rompa, non si inceppi». «Ah», dissi, e gli risposi: «E quando si inceppa la aggiusta?» - continuavo a pensare che lui lavorasse con quella macchina. «No - mi disse con stupore - io non so nulla di quella macchina! Io sono qui per chiamare il tecnico, chiamo la ditta che ha costruito questa macchina e poi ci penseranno loro».Era reso inutile, era qualcosa di posticcio, non era più la macchina costruita dall’uomo, ma essa che in qualche modo procedeva da sola e lo asserviva, spegnendo il suo tempo, la sua partecipazione ed energia.Nel fare, dal dentro del lavoro, viene invece il modo con cui poi tu parli del mondo, con cui lo significhi. È come quando progressivamente e con un’accelerazione è scomparso il dialetto a Milano. Prima era il modo normale, quotidiano, spontaneo di parlare, poi, con una forzatura, si è voluto sostituirlo, perché si è ritenuto che fosse troppo povero, poco elegante. E così è come il fare che è stato sostituito dalla macchina e ha reso una comparsa la nostra umanità. Per questo ho scelto come lingua della mia poesia il dialetto.Anche quando si è voluta definire la persona attraverso la classe, nascondere l’io dietro la funzione sociale, allora quello che è il valore di questo legame tra il fare e la vita è iniziato a venire meno. Uno si è definito attraverso qualcosa di estraneo al suo tempo, al suo fare, al suo vivere.L’esperienza del fare avvicina l’uomo a se stesso. Questo è il lavoro. Ma si è introdotta forzatamente una crepa, una separazione. Si diceva che l’uomo non poteva voler bene a quello che faceva, si è insinuata una divisione tra colui che lavora e quello che fa. Come se quello che era come uomo dipendesse da quello che faceva e siccome quello che faceva era parte di un ingranaggio lui non esisteva, il lavoro era una sospensione, un’alienazione della vita.
Il fare, il vivere comporta sempre il porsi una domanda: cosa accade in me quando io vivo un’esperienza? Più ho consapevolezza di me, più penetro dentro di me e più io arrivo a quel punto dove si palesa che la verità è indipendente da me. La poesia è tipico esempio di questo e ha il suo punto d’incontro con la fotografia, anche se in questa c’è di mezzo una macchina, ma essendo fatta di regole semplici non separa dall’esperienza.A Milano c’è un detto che è significativo positivamente e negativamente: «Fa’ e desfa’ l’e’ tutt on lavora». La città cambia continuamente - ai tempi si sono lamentati anche il Porta, il Tessa. È la città della gente che lavora, della gente attiva. Questo però ha il suo aspetto negativo perché una delle cose che piace al potere è cambiare sempre; allora come fai a prendere consapevolezza se non hai ancora imparato dove vivi, che subito devi vivere in modo diverso, devi cambiare i tuoi rapporti, il tuo modo di vivere per le strade. Milano è molto cambiata. Non si sentono le voci dei bambini che giocano. Negli anni ’50 giocavo per strada al pallone, arrivava una macchina e si fermava; aspettava che noi andassimo sul marciapiede, dopo di che passava e noi in strada tornavamo a giocare. Le voci dei bambini, cosa vuol dire? È una cosa molto importante: attraverso i bambini le famiglie si conoscevano. Ci incontravamo e c’era la vita in comune, c’era la città. I luoghi di incontro o di lavoro sono molto importanti anche sotto questo profilo, perché alla gente danno il senso della comunità, la comunità sociale. E la comunità sociale diventa fattiva, reale quando si dà il senso all’uomo della conoscenza di sé e quindi dell’attenzione all’altro perché si è attenti a se stessi. Come farò a dire che amo una persona se non so neanche chi sono?