Lo scrittore Alessandro D'Avenia - © MARTA D'AVENIA
Nel proemio dell’Odissea il poeta chiede alla Musa di cantare le vicende di Ulisse iniziando “da qualche punto”, che è come dire: «Narraci una tra le tante vicende di Ulisse». Se mi chiedessero di raccontare la mia vita da un punto a mia scelta, da quale partirei? Credo che sceglierei il momento in cui ho visto Itaca nel mio cuore, percependola all’inizio solo come nostalgia di futuro, il nome che io do al desiderio. Itaca per me aveva il volto di un uomo sofferente sotto una croce, in una piccola chiesa sul mare che si ostinava a entrare dalle finestre in forma di luce screziata gialla e azzurra, diffondendo il suo profumo e illuminando chiassose maioliche siciliane. Un uomo aiutava un altro uomo a portare la croce, ed era finito a farlo per caso. È passato alla storia con il nome di Cireneo, perché era originario della città greca di Cirene, nella costa nordorientale della Libia, e quando incontrò Gesù stava tornando da una giornata di lavoro nei campi. Quando ho visto quel volto dipinto ho capito che Itaca per me era la storia di qualcuno che, mentre fa il suo mestiere, aiuta un altro, ferito, affaticato, perso, confuso, a percorrere un pezzo di strada. In quel momento, mi è testimone il mare, ho detto sì a questo desiderio di Dio per me. Da quel punto io comincerei perché da lì tutto è partito e lì “tutto torna”, come siamo soliti dire quando qualcosa si chiarisce o si risolve. Su quel destino si fermerà l’ultima luce dei miei occhi pronti a chiudersi per sempre, e alla luce di quel punto potrò dire, spero, che nulla è andato sprecato, tutto è nato.
L’uomo che porta la croce è ogni povero cristo (solo di lui usiamo il nome proprio per indicare qualsiasi uomo, così come facciamo con l’Odissea per la vita) che ho incontrato nel mio viaggio di ritorno. Anzi, proprio quegli incontri sono stati le tappe del mio viaggio di ritorno. La Musa, figlia di Zeus e di Memoria (Mnemosyne), divinità dal nome parlante, è per i greci la dea dell’ispirazione. Attinge da una tradizione e rinnova, con la bellezza, la presenza della verità, le cose come Zeus le ha stabilite. Da Musa viene la parola “musica”, quell’insieme misterioso di creazioni umane che, non dettate dall’utile, riempiono il mondo di senso. La bellezza non ha senso, ma dà senso. E così il cantore in genere recitava un episodio della grande enciclopedia epica dopo il banchetto o in occasioni di festa, come fosse la puntata di una serie televisiva, nella sala centrale del palazzo reale, dove i commensali erano disposti in cerchio attorno al focolare, come noi oggi davanti a uno schermo luminoso, se non fosse che noi spesso siamo soli di fronte a quello schermo.
Ma prima di iniziare il racconto vero e proprio l’aedo chiedeva l’aiuto degli dei: «L’uomo narrami, Musa». Queste parole del primo dei circa dodicimila versi costituiscono una preghiera che il poeta rivolge alla dea che lo ispira. La Musa è donna in tantissime culture lontane nello spazio e nel tempo, a sottolineare che il dare la vita, il portare nell’essere, è qualcosa che l’uomo può fare solo accogliendo una parte femminile di sé e in sé. Così dovrebbe cominciare ogni opera umana seria, che sia generazione: con la richiesta di saper accogliere la realtà, di saper ricevere l’essere perché possa manifestarsi di nuovo in e attraverso di noi. E quindi la prima cosa da fare perché questa odissea cominci è ricevere, cioè chiedere, e la preghiera è la forma più radicale del domandare. Ho imparato a pregare da bambino, la preghiera che mi ha fatto crescere di più è la seconda parte dell’Ave Maria, dove si supplica la Madonna di pregare per noi: «Adesso e nell’ora della nostra morte».
Sin da subito ho imparato che gli unici due momenti reali sono il presente e il momento della morte, il qui e ora e l’ora del nostro compimento. Quella frase è un manuale condensato dell’arte di essere mortali: essere svegli ora e allora, cioè sempre. Questo mi ha salvato quando sono naufragato. Avevo perso ogni gioia e temevo che la notte oscura della mente e del cuore mi avvolgesse nelle spire della depressione, che purtroppo serpeggiano tra i rami del mio albero genealogico. Non trovavo più vita dentro e fuori di me, così ho pregato come chi non ha e non può niente, come uno appena venuto alla luce e che può solo ricevere, come uno in cui l’ora presente e l’ora della morte coincidono; e ho scoperto che quell’unica ora era l’ora di nascere. E come una risposta, mi è venuta incontro l’Odissea: per capire chi ero quando non ero più chi credevo di essere dovevo ricevermi da qualcun altro che mi conosceva e amava più di quanto io mi conoscessi e amassi. L’Amore era la fonte dell’essere che mi mancava. L’ho invocato davvero, per la prima volta. L’uomo donami, Amore. Fammi nascere di nuovo. Fammi chi sono. Fammi tornare alla luce. Ulisse tornò re solo dopo esser stato un naufrago e un mendicante che chiede un tozzo di pane. Ulisse divenne naufrago e mendicante anche di se stesso. L’Odissea è la risposta a una preghiera, a una richiesta d’amore. Ogni odissea lo è. Ora e nell’ora della nostra nascita. (Resisti cuore. L’Odissea e l’arte di essere mortali Mondadori, pagine 436, euro 20)