Scrittore, saggista e sceneggiatore, autore versatile e brillante, Davide Barzi (Milano, 1972) è capace di esplorare il mondo di Diabolik (
Le Regine del Terrore, biografia delle creatrici del Re del Terrore), ma anche le relazioni tra musica e comics (
Carta Canta, con cui ha vinto il premio Franco Fossati come miglior saggio sul fumetto) e di confrontarsi con Giorgio Gaber, Giovannino Guareschi, Nathan Never, Dylan Dog, passando dall’umorismo al realismo.
Partiamo da Don Camillo e Peppone, i Coppi&Bartali della letteratura. Che effetto fa averli 'accompagnati' per la prima volta nella narrativa disegnata? «L’ho fatto con timore reverenziale. Ma sia la casa editrice sia Alberto e Carlotta, i figli di Giovannino che sono nostri splendidi partner creativi nella realizzazione delle storie, mi hanno messo ben presto a mio agio. Certo mi ha stupito il fatto di essere arrivati per primi… sessantuno anni dopo! Quando Giovanni Ferrario, art director diReNoir
Comics, mi parlò la prima volta del progetto (era il 2001) mi sembrò subito incredibile che, a oltre cinquant’anni dal primo racconto pubblicato, noi potessimo essere i primi ad adattare i racconti di Guareschi in questo linguaggio».
Giovannino Guareschi è un mostro sacro, più amato dal pubblico che dalla critica, che spesso ideologicamente non ne ha compreso il genio. Come ci si avvicina ad un autore del genere? «Posso dire 'con sospetto'? Ero abbastanza nutrito di critiche da opposti schieramenti, che sedimentano e un po’ creano pregiudizio. Ero un lettore di
Cuore negli anni Novanta e seguii con grande curiosità le opinioni contrapposte sull’opportunità o meno di pubblicare una raccolta di racconti di Guareschi in allegato al settimanale satirico 'de sinistra'. Per fortuna è arrivata questa proposta a fare pulizia nella mia mente, scrostando dalle pareti qualche preconcetto. E ho scoperto un grande scrittore. Punto. Un umorista di rara maestria, un dialoghista di efficacia senza pari, un abilissimo 'reinventore di realtà', che ci riconsegna l’Italia dei suoi anni fotografata in diretta con un obiettivo personale, schierato sì ma dalla parte del buon senso. I suoi personaggi hanno decisamente travalicato sia la rappresentazione di un’era sia quella di uno spazio geografico molto limitato. 'Se vuoi essere universale, racconta del tuo villaggio', diceva Lev Tolstoj. E chi siamo noi per dare torto a Tolstoj?».
Tra i momenti più alti della saga ci sono i dialoghi tra il Crocifisso e don Camillo. «È uno degli aspetti su cui abbiamo fatto più fatica a trovare la misura iniziale. Intanto perché, se nei film siamo abituati a una rigida statua parlante, nei racconti Gesù occasionalmente sorride, lacrima, in un racconto pubblicato nel volume 7 addirittura muove un braccio per salvare don Camillo da uno sparo. Non era facile trovare una modalità per riportare questa vitalità a fumetti senza eccedere: nei racconti questo dinamismo del Crocifisso ha una sua poesia, a fumetti rischiava di risultare sopra le righe. Abbiamo spesso optato per inquadrature e tagli di luce che danno l’idea dei muscoli del viso che cambiano espressione, senza che ciò avvenga davvero. La seconda difficoltà era quella di dare al suo eloquio una modalità grafica che lo connotasse, che non uscisse perdente con il confronto del doppiaggio di Ruggero Ruggeri nei primi film e che consentisse di capire quando sta parlando Gesù anche quando avviene fuori campo. Esistono diverse prove scartate sia di
lettering sia di forma del
balloon. Gli abbiamo dato un
fontspecifico usando uno stratagemma, utilizzato sin dal 1948 da Walt Kelly nel suo
Pogo, e gli abbiamo dato un ballon 'a raggiera' che desse al tutto un’aura ultraterrena».
Dal 2013 nel suo lavoro c’è un filo che unisce il ricordo del 'medico cantautore' Enzo Jannacci, il fumetto e la solidarietà. «Ho avuto la fortuna di conoscere Jannacci alla fine degli anni Novanta, quando ero un 'giovane autore'. Ricordo sempre la lezione di Enzo, quella di non dimenticarsi mai degli ultimi, dei 'disgraziati', come li chiamava lui, e ho sempre cercato il modo giusto di portare questo suo messaggio in una storia a fumetti evitando il rischio di una trattazione didascalica. Nel 2014 questo percorso è diventato il libro
Unico indizio le scarpe da tennis. Insieme a Sandro Patè ho poi realizzato la mostra 'La mia gente. Enzo Jannacci, canzoni a colori', 50 illustrazioni dedicate allo
chansonniermeneghino e, soprattutto, a tutti i meravigliosi, umani, scanzonati e disperatamente allegri personaggi che hanno letteralmente preso vita dalle sue liriche. Le cinquanta opere donate dagli autori (da Giorgio Cavazzano a Silver, Silvia Ziche e Claudio Villa, ndr) sono state battute all’asta da Sotheby’s (era la prima volta che accadeva, in Italia) e tutto il ricavato è andato alla rivista di strada
Scarp de’ tenis e a Caritas Ambrosiana per i suoi obiettivi di reintegrazione sociale. La mostra a dicembre 2015 avrà un seguito: cinquanta nuovi autori, stessi obiettivi».
Sempre con 'Le scarpe da tennis' ai piedi. «Dopo il successo del volume
G&G, dedicato a Giorgio Gaber, cercavo una strada sensata per raccontare a fumetti l’altro dei
Due corsari. L’idea è stata quindi quella di affrontare una sola canzone, il suo brano-manifesto
El portava i scarp de tennis. Un noir ambientato a Milano nel 1959, un pretesto per raccontare gli ultimi e chi lotta per la loro dignità: protagonista è il maresciallo Mantuano, che indaga anche contro il volere dei suoi superiori. 'È roba da barboni', gli dicono sull’omicidio di un barbone abbandonato in un campo di periferia, vestito elegante, ma ai piedi un paio di 'scarp de tenis'. Anche in questo caso è previsto un seguito, con i disegni di Alberto Locatelli e Marco 'Will' Villa».
Il rapporto con la rivista Scarp de’ tenis e i fumetti prosegue in altre direzioni. «Sì. Nel primo numero della nuova versione della rivista è stata pubblicata, per gentile concessione della Sergio Bonelli Editore, una storia di Dylan Dog che ho scritto per i disegni di Gerasi. Da quest’anno, poi, tutti i mesi appare sulla testata una striscia che ha per protagoniste le scarpe, che però si comportano in tutto e per tutto come esseri umani. Personaggio principale è Paputsi, storpiatura di 'Papoútsi' ('scarpa' in greco), la scarpa da tennis,
loser chapliniano, trasandata senza risultare sporca, vissuta senza apparire vecchia, carismatica ma non arrogante: personaggio inadeguato rispetto al mondo e alla società che lo circonda, ma che ci prova sempre, con tenacia e in qualche modo poesia».
Chi è invece Josif? «Il registro del grottesco mi piace molto, e inevitabilmente ogni tanto torna fuori. L’ultima occasione è Josif, il gorilla cosmonauta nato dalla matita di Fabiano Ambu e da due anni testimonial di Cartoomics, diventato personaggio di una serie. Il volume
Josif 1957 è uscito per Rw Lineachiara. In questo
graphic novel si parla di Usa, Urss, Cia, Kgb, tutte sigle utili a coprire un solo nome di cinque lettere: Josif».
Di padre Brown, invece, cosa ci racconta? «Il precedente con cui fare i conti non è lo sceneggiato Rai con Renato Rascel, quanto gli episodi di
il Giornalino primi anni Ottanta di Renata Gelardini e Lino Landolfi. Ce ne siamo tenuti debitamente lontani, sia come stile di narrazione sia come
mood grafico. Dopo il numero zero, disegnato in maniera sublime da Werner Maresta e presto esaurito, siamo usciti con un primo volume contenente tre storie,
La croce azzurra, Il giardino segreto e
Gli strani passi. La cura dei particolari e l’attenzione all’opera letteraria originale non costringono la narrazione, che sfrutta tutte le potenzialità del linguaggio fumettistico per appassionare divertendo alle vicende del protagonista 'che ha una di quelle teste che non possono evitare di farsi domande'».