Non erano i nostri giorni, il tempo del monopolio. La cronaca insegna: quattro player a spartirsi il mondo, dal virtuale al reale. Google, Apple, Facebook, Amazon. Sorrideva, il globo, all’idea della rivoluzione digitale, prima della guerra (tardiva) del Parlamento europeo a Larry Page e Sergey Brin, contro i lobbisti loro sostenitori al congresso USA, eppure, qualche anno fa, quando Douglas Rushkoff, teorico dei media fra i più apprezzati d’Oltreoceano, scriveva il suo capolavoro Presente continuo – in Italia tradotto da Giovanni Giri e Sergio Orrao per Codice (pagine 228, euro 22,00 ) – già provava a dare risposte ai problemi dei nostri giorni. Tentava di riflettere sul rapporto tra tecnica, libera opinione, pensiero, società. Perché sì, certo, «il futuro che abbiamo rincorso per buona parte del Ventesimo secolo è arrivato». Ma le nostre vite in multitasking, la continua violazione della nostra privacy, l’impatto della tecnologia sull’informazione sembrano avere più colonizzato che liberato le nostre coscienze. Per quale motivo? Nel libro c’è un punto di partenza: esisterebbe, oggi, un neorelativismo indotto nelle nostre vite dalla tecnica stessa. «La gente non tiene più il passo, questo è certo. E io non penso neppure che ci si debba provare, a stare dietro alla velocità della tecnica. Se cerchiamo di tenere il passo con ogni notizia che ci passa sotto gli occhi, dall’ultimo attacco di uno squalo segnalato dalle cronache al più recente fenomeno politico o popolare, beh non possiamo più, di fatto, conoscere nulla. Le applicazioni per l’informazione che usiamo oggi, da Twitter a Facebook, creano solo l’illusione di andare di pari passo con le news in tempo reale, quando in effetti ci impediscono di pensare». È un’affermazione reazionaria, direbbe qualcuno. «No. È come se questi mezzi, alcuni dei nuovi media, fossero stati progettati per tenerci distratti da ciò che conta, o per costringerci a reagire, sempre, nel modo più elementare possibile. E sì: c’è una sorta di relativismo che si verifica. Non è un relativismo cosciente, però. Assomiglia più alla disponibilità a considerare un fatto di gossip alla stregua della notizia della morte di un bambino». Presente continuo è un libro che invita al rivoluzionamento di pratiche collettive ed atteggiamenti soggettivi nel contesto della cultura digitale che oggi è cultura dominante? «Non so se posso dirmi d’accordo con la definizione. Perché non sono un grande fan delle rivoluzioni. Quindi non direi che il mio libro pone una domanda in favore di una radicalità. Non sono neppure a favore della rinascita di vecchie idee in un nuovo contesto». Come si spezza il cerchio, allora? «Vorrei recuperare attitudini e pulsioni davvero umane, vorrei utilizzare la tecnologia digitale per dare loro corpo e moltiplicarle, invece di sopprimerle come oggi accade. Il libro è un appello per un’applicazione della tecnologia più finalizzata all’umanità stessa». Abbiamo perso per strada, però, le retoriche entusiaste di inizio millennio sulla cultura digitale. Quanto è cambiato il nostro sentire collettivo su internet? «Io direi che qualcosa era cambiato già tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. Prima internet era uno spazio di gioco, uno spazio di ricerca, un luogo in cui le persone potevano immaginare, per così dire, una nuova società lavorativa senza troppi vincoli economici o politici. Internet era stato pensato come un luogo di possibilità». Poi? «Quando la Rete è stata consegnata al controllo delle società, internet è stato di fatto ripensato come uno strumento per salvare il business». Rimedi? Il mercato non sembra aggiustare le cose da solo. «Se si parla di giornalismo: dobbiamo essere più consapevoli delle fonti. Davvero vogliamo sostituire con un social network i nostri giornali? Penso che Facebook possa essere fantastico se utilizzato per vedere da lontano le foto dei nipoti. Ma è davvero il posto migliore per fare i conti con ciò che sta accadendo in Iraq, in Medio Oriente, o per avere ragguagli sulla crisi dell’euro? Forse no». Messa così sembrerebbe una questione di mediazione con la tecnica. Eppure per effettuare scelte razionali un soggetto deve avere un’identità stabile, relazioni comunitarie, operare scelte in un ambiente preciso nel tempo.Tre variabili su cui la tecnologia impatta in modo devastante. Nel suo libro c’è una polemica con Kevin Kelly,che è tra i fondatori di Wirede che è autore dell’esplicito Quello che vuole la tecnologia. Il punto è questo: si possono fare patti con una tecnica che, sistemicamente, erode il nostro stesso centro di gravità? «C’è un punto del lavoro di Kelly – e di altre opere con cui mi sono confrontato in fase di stesura – a cui mi sento proprio di reagire: la nozione secondo cui la tecnologia possa volere qualcosa. Non credo che, in qualche modo, essa sia in co-evoluzione con l’umanità stessa, non credo neppure che a noi essere umani, domani, tocchi solo arrenderci all’avvento di una sorta di regno delle macchine. Non vedo la tecnologia come una forma superiore di vita. Non penso che l’informazione sia una dea cui ci tocchi assoggettarci per forza. Vedo la tecnologia come estensione dell’umanità, non come la nostra sostituta. E le cose possono andare a mille all’ora, veloce quanto si vuole, se si ha introiettato un vero e proprio sistema di valori e se si mantengono reali rapporti con gli altri esseri umani. È tutto quello che non stiamo facendo, peraltro, ed è per questo che siamo disorientati da quei cambiamenti cui lei allude». In chiusura: il futuro è alle nostre spalle. Ci salveranno le arti e l’umanesimo, sembra dire il suo libro. «Certamente. E non solo perché l’arte è un modo per gli esseri umani di esprimere ciò che ci rende speciali. Ma soprattutto perché l’arte ci aiuta a ricordare che gli esseri umani sono eccentrici e si pongono sempre in ambiguità. Da sempre sostengo che una delle migliori attività umane sia, per così dire, giocare con i paradossi piuttosto che pensare di risolverli. L’arte è meravigliosa per questo, perché ci aiuta a celebrare l’incertezza».
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