Non esiste una graduatoria che allinei i Paesi per grado di civiltà. Non può esistere, naturalmente, nemmeno in un mondo di ansie classificatorie come il nostro: perché il concetto è sfuggente, indefinibile. Eppure, se ci fosse, la Nuova Zelanda competerebbe a buon diritto per i primi posti. Lo testimoniano tanti piccoli segnali che si possono cogliere nell’atmosfera quotidiana. Il rispetto per le regole non scritte. Il garbo nei rapporti tra le persone. I sentieri naturalistici, non importa quanto remoti, immancabilmente accessibili ai disabili. Il rispetto per la natura, che laggiù domina sull’uomo, poco più che pioniere soprattutto nell’Isola del Sud.
La Nuova Zelanda, grande più o meno come l’Italia, ha poco più di quattro milioni di abitanti, come la Croazia o l’Irlanda: pochi, e inoltre concentrati nella più calda Isola del Nord dove sorgono Auckland, la “metropoli” neozelandese, e la capitale Wellington. L’Isola del Sud, che occupa metà della superficie del Paese, ha invece da poco festeggiato il suo primo milione di abitanti, che quindi si ritrovano dispersi in un ambiente naturale vasto, imprevedibile e di sorprendente bellezza. Il paesaggio è dominato dalla catena delle Alpi meridionali, in tutto simili a quelle europee: la forma dei rilievi, i solchi delle vallate, gli allungati laghi glaciali, i colli delle prealpi rimandano immediatamente alle immagini consuete da quest’altra parte del mondo; solo, laggiù si conservano intatte, non trasformate e plasmate dalla millenaria mano dell’uomo. I neozelandesi sono tutti appena arrivati, sia i maori di ceppo polinesiano, sbarcati nel Duecento, sia i discendenti degli inglesi, giunti a partire dal Settecento. Entrambi i gruppi sono cittadini fin dalla nascita dello Stato come dipendenza britannica, formalizzata dal trattato di Watangi nel 1840. Fin da allora gli inglesi riconobbero i diritti di proprietà dei maori; nei decenni seguenti non mancarono certo abusi, forzature e anche scontri armati tra i due gruppi etnici, ma le tensioni non andarono mai al di là di un certo segno, e oggi tutti antepongono a ogni altra identità quella peculiare neozelandese: kiwi – dal nome dell’uccello simbolo del Paese – è il nomignolo nel quale tutti si riconoscono. I maori, circa il quindici per cento dei neozelandesi, coincidono ancora in gran parte con la fascia più debole della popolazione: ma di una popolazione eccezionalmente equilibrata. Il divario tra i più ricchi e i più poveri è contenuto, l’indice di sviluppo umano è altissimo – il terzo nel mondo nel 2010 – anche se il Pil pro capite è di circa diciannovemila euro annui, inferiore a quello italiano (quasi ventunomila, sempre nel 2010). Per contro, la Nuova Zelanda è al primo posto nella particolare graduatoria che misura la corruzione; sostanzialmente, non c’è.Wellington, placida ed elegante, sorge all’interno di un antico cratere vulcanico riempito dalle acque del mare, all’estremità meridionale dell’Isola del Nord; i villini dove risiede gran parte della popolazione punteggiano il verde dei colli digradanti verso il centro storico – si fa per dire: gli edifici più antichi sono quelli di foggia inglese sorti a fine Ottocento – e il porto, dal quale i traghetti partono per affrontare il turbolento Stretto di Cook che divide le due isole. In quella del Sud la dorsale alpina, che si eleva a ridosso della costa occidentale, s’incontra con il mare in un susseguirsi di baie, insenature e fiordi, che non hanno nulla da invidiare ai più celebri gemelli norvegesi: centinaia di metri di roccia si buttano a picco nelle fredde acque australi, popolate di pinguini e foche orsine. Le nevi perenni e i ghiacciai scendono fino a poche centinaia di metri di altitudine sul livello del mare; la Nuova Zelanda si trova alla stessa latitudine dell’Italia – ovviamente ribaltata –, ma non beneficia della Corrente del Golfo che riscalda l’Europa. E quindi ha un clima più freddo e, soprattutto, più piovoso della sua controparte boreale. Questa caratteristica, combinata con l’isolamento ininterrotto da ere geologiche, ha generato un panorama ambientale unico. Non esistono mammiferi terrestri, salvo quelli importati dall’uomo negli ultimi secoli, e ovunque sorge la foresta pluviale. Una strana foresta: apparentemente alpina, se vista da lontano; simile al contrario alle giungle tropicali, se osservata più da vicino. Ma una giungla fredda, con le palme adattate al clima grazie alle foglie sfrangiate, le conifere dagli aghi sottili e aguzzi, le felci – altro simbolo della Nuova Zelanda –, i rampicanti. E ovunque, spessa e soffice coltre, il muschio che ricopre ogni cosa: terreno, rocce, tronchi, rami, foglie. Infatti è qui che il regista kiwi Peter Jackson ha trovato la Terra di Mezzo evocata da Tolkien, e ne ha immortalato le immagini nella trilogia Il signore degli anelli. Nella stretta fascia costiera occidentale gli insediamenti umani sono ancor più radi e conservano un che di provvisorio, pionieristico, e possono scorrere centinaia di chilometri tra uno e l’altro. I collegamenti con la sponda orientale passano attraverso due passi che si aprono al culmine di valli nebbiose e deserte, ma superata la cresta il paesaggio improvvisamente s’illumina, e degrada dolcemente in colline via via più arrotondate, sulle quali brucano in stato semi-brado pecore, mucche e cervi, le tre razze che costituiscono l’ossatura dell’allevamento neozelandese. L’altro caposaldo dell’economia dell’Isola del Sud è la vite, coltivata nelle regioni più riparate e impiegata per produrre Sauvignon e Pinot di ottima qualità. In fondo alla piana, sempre ondulata, le piccole città – la remota Invercargill, l’eccentrica Dunedin, la martoriata Christchurch –; nel mezzo, la campagna punteggiata di fattorie dove ogni famiglia vive quasi in autarchia, eppure parlando un impeccabile inglese oxfordiano e rimuginando la propria nostalgia dell’Europa. Ogni casa ha almeno una stanza per i viaggiatori di passaggio, accolti con un bicchiere di vino e il rito vittoriano del tè, imprescindibile appuntamento con i vicini ma anche con gli ospiti – e non importa se conosciuti o no.