L'ACCUSADesidero esprimere un parere francamente critico riguardo alle affermazioni riportate nell’intervista al filosofo e teologo Robert Spaemann pubblicata da
Avvenire, tenendo presente che il dissenso più autorevole alle posizioni in essa sostenute di può desumere indirettamente dalle parole pronunciate da Benedetto XVI, durante l’Angelus del 27 luglio 2007, in occasione del 50° anniversario dello statuto dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica): «I cambiamenti epocali avvenuti negli ultimi 50 anni evidenziano come, nel difficile crocevia in cui l’umanità si trova, sia sempre più attuale e urgente l’impegno di incoraggiare la non proliferazione di armi nucleari, promuovere un progressivo e concordato disarmo nucleare e favorire l’uso pacifico e sicuro della tecnologia nucleare per un autentico sviluppo, rispettoso dell’ambiente e sempre attento alle popolazioni più svantaggiate. (...)».Non mi sembra che il Santo Padre individui nella fissione nucleare, volta naturalmente a scopi pacifici, quella empia violazione dei principi costitutivi della creazione insinuata da Spaemann, né tantomeno che consideri l’integrità dell’atomo equiparabile a quella del genoma. Non si può mettere sullo stesso piano l’Albero della vita e la materia inanimata. Non sono teologo nè filosofo ma un semplice medico, cristiano e medico nucleare che da anni utilizza radionuclidi non sigillati per esami diagnostici (scintigrafie, PET) o trattamenti terapeutici (con radioiodio) senza sentirsi per questo motivo arrogante nei confronti del creato: sento di poter dire che altro è il timore di Dio, per cui siamo chiamati a rispettare la sua opera creatrice, altro è il senso di “hybris” che traspare dalle parole di Spaemann. Mi sono trovato spesso, da medico nucleare, a dover difendere l’uso delle radiazioni ionizzanti (in ambito medico) dalle accuse di teratogenicità e cancerogenicità e ho percepito chiaramente nei miei interlocutori la presenza del “senso del magico” o religioso-naturale.Le perplessità espresse sulla capacità dell’uomo di governare il nucleare sono certamente fondate e condivisibili, ma al di là dei discorsi tecnici per cui ognuno può essere pro o contro, quello che preoccupa nelle tesi di Spaemann sono proprio le affermazioni filosofiche, per cui si attribuisce al nucleo degli atomi e ai legami delle loro particelle un valore immanente, più che simbolico: l’idea che sia arrogante chi rompe i nuclei di atomi pesanti per mettere energia a disposizione degli uomini e non lo sia chi riempie l’aria che respiriamo con i prodotti di combustione dei materiali fossili ci rimanda a Prometeo e non certo all’antropologia cristiana.E in effetti le radiazioni hanno in sé qualcosa di intrinsecamente metafisico, anzi francamente animistico, perché non si vedono, non si toccano, non puzzano, ma fanno molto male… Questo lo abbiamo visto con chiarezza nella propaganda antinucleare prima del referendum, per cui le parole di un cantante valevano più di quelle di tanti professori universitari. E d’altra parte, come spiegare l’attenzione rivolta dai media alla catastrofe nucleare ambientale di Fukushima (tutta ancora da valutare, misurare, anche nei suoi effetti biologici sulle persone contaminate) e la relativa disattenzione agli uomini e alle donne morte e disperse per l’abbinamento terremoto-tsunami (15-20.000 persone almeno)? È eccessivo leggere in quest’atteggiamento uno spirito squisitamente religioso (pagano). Perdonatemi, ma sembra proprio questa la chiave di lettura di tanti pronunciamenti antinucleari; gli dèi, offesi dalla presenza delle centrali nucleari, hanno punito gli uomini con lo tsunami.
Riccardo SchiavoLA DIFESA«L'Europa vive da secoli della menzogna del progresso al singolare. (…) A chi nomina il progresso dico: progresso di cosa e in quale direzione?» ha scritto Spaemann in questa pagina. Anche a me ogni discorso che nomini ancora la «tecnica» e il «progresso» al singolare sembra purtroppo inservibile. Questo errore - che pur alcune menti fini non avrebbero fatto un millennio anni fa - penso a un Guglielmo di Ockham, era forse scusabile nella Belle époque, quando i parigini facevano «Oh, il progresso!» davanti alla torre Eiffel illuminata. Ma è imperdonabile oggi, 40 anni dopo le riflessioni di Günter Anders e di Hans Jonas sulla intrinseca diversità delle tecniche, alcune delle quali hanno ora assunto una portata nello spazio e nel tempo e una irreversibilità mai esistite. Ma perché restringere la riflessione all’incontrollabilità dell’attuale tecnologia atomica? La riflessione etica sulla pluralità delle tecniche sarebbe indispensabile anche se non avessimo mai imparato a “rompere gli atomi”. Forse l’umanità sa prevedere e controllare le conseguenze dei 50 miliardi di tonnellate di gas di serra che emette ogni anno, mentre la biosfera può assorbirne 10 senza alterare il clima? No - dicono migliaia di climatologi - non sappiamo prevedere le conseguenze di queste emissioni. Più umilmente, essi sanno solo disegnare scenari grossolani più probabili e altri meno probabili. Il primo problema quindi è cognitivo. Ma quando si guida a 100 all’ora con gli occhi bendati, il secondo problema è etico. Sappiamo che non siamo capaci di tornare indietro da certe strade intraprese: i nostri gas di serra, che in parte causeranno conseguenze per un millennio, non sappiamo come ritirarli fuori dall’atmosfera e dagli oceani.Con 100 miliardi di dollari è tecnicamente possibile rifare entro il 2030 l’infrastruttura energetica mondiale, rifondandola al 100% sulle energie rinnovabili e a costi inferiori di quelli dell’energia fossile e atomica. Lo affermano gli ingegneri statunitensi Mark Jacobson e Mark Delucchi nel più completo studio mai realizzato sul futuro delle energie rinnovabili (“Energy policy”, marzo 2011). Ma sapremo controllare le conseguenze di queste nuove tecnologie se si moltiplicheranno senza freno? L’euforia per le fonti rinnovabili comporta il rischio di concentrarsi solo sulla qualità delle fonti, continuando a lasciar crescere la quantità dell’energia usata e sprecata, «tanto, è rinnovabile….». Per questo, partendo dal presupposto che ogni trasformazione energetica antropica ha un potenziale di disturbo della biosfera, alcuni scienziati propongono da decenni un limite volontario a 1500-2000 watt pro capite. Nel 2002 il governo elvetico, di cui fanno parte tutti i partiti tranne i Verdi, adottò lo scenario di una “società a 2000 watt” (novatlantis.ch). Il livello a cui porre questo limite è una scelta di prudenza etico-politica, eventualmente rivedibile in futuro. Per esempio, la potenza usata in Islanda è di 16 000 watt pro capite (in Usa 12 000, in Europa 6 000, in Bangladesh 500), in gran parte di fonte geotermica. In teoria, se l’umanità riuscisse a usare tecnologie con impatto altrettanto basso che in Islanda, forse 10 miliardi di persone potrebbero usare 160 TW (migliaia di miliardi di watt) senza aumentare il pregiudizio ambientale, invece dei 14 TW che usano ora 7 miliardi di persone. Si stima che l’insieme degli organismi viventi sui continenti assorbano 50-60 TW di energia solare. Volere usare altrettanta potenza solo per la nostra specie, cioè 5-6000 watt pro capite in 10 miliardi, o addirittura il triplo, presuppone un’intelligenza ecologica che la comunità vivente esercita da miliardi di anni ma che la specie umana non ha ancora dimostrato di avere. A buon conto, migliaia di scienziati e ingegneri stanno lavorando d’ingegno, per esempio in Svizzera, per riportare il consumo d’energia elvetico a 2000 watt pro capite, come negli anni ’60, senza atomo e quasi senza energie fossili. Anche loro lavorano per un progresso. Un altro.
Marco Morosini