venerdì 18 ottobre 2024
Le proiezioni sul futuro inesorabilmente urbano dell’umanità spesso non approfondiscono il ruolo del tessuto delle città medio-piccole né le relazioni con le aree agricole
Il quartiere Gardens By The Bay a Singapore

Il quartiere Gardens By The Bay a Singapore - Lankowsky / Alamy Stock Photo

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Da qualche decennio geografi, sociologi e urbanisti hanno cominciato a raccontare le grandi global cities scoprendole come realtà in crescita, per numeri ed estensione. Lagos, Shanghai, Istanbul, Tokyo, Mumbai, San Paolo, città della dismisura sono state raccontate come l’anticipazione del mondo che vivremo nella metà del millennio: la storia del nostro futuro. Da almeno vent’anni non c’è discorso intorno alle città che non poggi sulla certezza che entro il 2050 il 70 per cento della popolazione mondiale vivrà in contesti urbani. Alla metà del secolo – come dubitarne se tutti lo ripetono? – vivremo in un mondo fatto di città. Non c’è articolo, libro, presentazione accademica, report internazionale che non sia attraversato da questa profonda, inspiegabile e immotivata certezza, che molti studiosi hanno chiamato il “secolo urbano”. Non solo la cosa viene data per ovvia e incontrovertibile, non solo rimbalza nel diffuso storytelling dei media, delle università, delle organizzazioni politiche; non solo pare che non siano prevedibili alternative o possibili deviazioni di rotta ma viene pure anelato come l’unico futuro auspicabile. Se la megacity degli albori è stata individuata soprattutto nei vasti agglomerati informali che hanno caratterizzato la spasmodica crescita delle aree urbane nei paesi in via di sviluppo (in particolare in America Latina, ma in forme diverse anche in Asia e successivamente in Africa), oggi lo stesso concetto viene utilizzato per designare un tipo di agglomerato urbano di grande dimensione, che può essere localizzato nel Nord come nel Sud del mondo, e il cui carattere peculiare – oltre alla dimensione spropositata rispetto a qualsiasi metropoli del passato – è proprio costituito dal carattere dell’eterogeneità. Al suo interno possiamo trovare aree propriamente urbane così come aree agricole non necessariamente residuali, zone formali e zone informali e in abbandono, centri dirigenziali e sterminate baraccopoli. Per quanto caotica e faticosamente gestibile, continuo a non capire come questa idea di città abbia tuttavia convinto i più di essere la condizione auspicabile per tutta l’umanità.

A questa narrazione che ha cominciato a circolare negli ambienti accademici, si sono aggiunte le previsioni di sviluppo urbano prodotte dalle grandi istituzioni mondiali – come UNHabitat - For a Better Urban Future – che hanno sottolineato alcuni trend di crescita delle grandi metropoli, annunciando «ufficialmente» l’era dell’urbanizzazione planetaria. Parrebbe solo questione di tempo, di attendere che milioni di persone si decidano ad abbandonare una volta per tutte i loro villaggi, le città più piccole, per trasferirsi nelle grandi capitali.

Tra le poche voci dissonanti rispetto a questo scenario ricordo il saggio di Franco La Cecla nel saggio “Contro il verbo di UN-Habitat: il mondo sarà tutto urbano” nel suo libro Contro l’urbanistica (Einaudi 2015) che porta sul banco degli imputati l’urbanistica delle organizzazioni internazionali, schiava delle statistiche, anzi di quelle strane cose che sono le cosiddette proiezioni.
Se la realtà non è un valore, ma un dato di fatto, allora di fronte a una simile eventualità, l’urbanistica potrebbe inventare politiche e progetti che vadano in una direzione diversa.

I documenti sull’urbanizzazione appaiono allora schizofrenici: promettono un mondo di città prospere, dove concentrare finanziamenti, interventi di politiche urbane, progetti a grande scala e denunciando al contempo la vita impossibile di barrios, favelas, slums. L’enfatizzazione del fenomeno urbano mette poi in ombra il peso che ancora in tutto il mondo ha l’agricoltura di sussistenza dei piccoli agricoltori e la rete delle città medio piccole.

Nonostante la tendenza globale all’urbanizzazione abbia fatto declinare la percentuale di piccoli agricoltori rispetto alla popolazione globale, il loro numero in assoluto è ancora in aumento e si stima che includa approssimativamente 2,6 miliardi di persone cioè il 40 per cento della popolazione mondiale. Sono i piccoli agricoltori a produrre gran parte del cibo consumato nel mondo.
L’abbandono dei contesti agricoli per migrare in città o per lasciare spazio a nuove edificazioni pare un effetto collaterale e non preoccupante dello sviluppo.

Continuo a non capire perché un mondo fatto di grandi città sia da considerarsi inesorabile (e finanche buono) e perché pochi stiano avanzando ipotesi alternative. Mi pare decisamente più sostenibile e abitabile un mondo fatto di «poche» grandissime città e di «moltissime» città di medio-piccole dimensioni, capaci di dialogare ancora con il loro territorio agricolo.

Un’ultima considerazione. I dati sui futuri delle città non raccontano tutto. Non dicono, o meglio lo dicono ma in pochi l’hanno evidenziato, che la maggior parte della popolazione mondiale, a oggi, vive ancora in città con meno di un milione di abitanti e la più grande discontinuità del futuro non sarà tra urbano e rurale, ma tra megalopoli e città intermedie: quelle che nel linguaggio internazionale vengono definite intermediary, costituiscono già ora il 20 per cento della popolazione mondiale e il 36 per cento della popolazione urbana.

Se osserviamo meglio le proiezioni al 2050 scopriamo, infatti, che il 60 per cento della popolazione mondiale vivrà sì in contesti urbani, ma con una distribuzione rilevante proprio nelle città medie (sotto il milione di abitanti) o piccole (meno di 50 000).
Affinché le città intermedie possano diventare un soggetto da raccontare e sostenere economicamente devono almeno esistere nella rappresentazione collettiva. E le città intermedie non sono definite solo in termini di ampiezza demografica e territoriale, ma anche in base al ruolo svolto in un territorio più ampio e alla capacità di facilitare legami urbano rurali, di diventare connettori di bacini agricoli. Le città intermedie: potrebbero rappresentare anche a livello amministrativo e gestionale il soggetto più adatto a conciliare la dimensione prettamente urbana con quella agroalimentare e di connessione con il mondo naturale. Non possiamo più considerare l’abbandono delle campagne da parte dei piccoli agricoltori e la perdita di biodiversità dei sistemi territoriali come un costo dello sviluppo; non possiamo considerare normali le grandi migrazioni di massa verso le megacity, senza affrontare il tema dello sviluppo delle città medie e medio piccole. Dobbiamo riuscire a immaginare modelli di sviluppo territoriale che non partano dalle città ma dai sistemi agroalimentari, investendo su agro-ecologia, biodiversità, economia circolare, riuso e recupero delle materie prime.

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