Che cos’è il non profit? A questa domanda in genere la maggior parte delle persone risponde che si tratta di un mondo che unisce realtà impegnate a fare del bene. Qualcuno aggiunge che vi sono anche molti furbi. Pochi sanno dire perché il non profit si chiama così, e cosa rientra in questa definizione. Il problema della scarsa comprensione di quell’universo che offre servizi di interesse pubblico in forma privata e con il vincolo della “non” distribuzione dei profitti, esiste da sempre. O almeno da quando lo Stato e il Mercato si sono impadroniti della scena, costringendo tutto ciò che nasce dalla società civile organizzata a un ruolo residuale, una specie di “altro da” che non a caso viene anche definito “Terzo” settore. Al tema della “conoscenza” del non profit si lega un’altra questione, particolarmente attuale in questo momento: la necessità di dare una nuova casa all’“utilità sociale” e alle attività orientate al bene comune, superando il recinto del non profit. Un’esigenza che la Caritas in veritate di Benedetto XVI ha espresso in modo netto, affrontando il tema dell’etica dell’impresa: «Sembra che la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit) non sia più in grado di dar conto completo della realtà, né di orientare efficacemente il futuro ». Nel dibattito si inserisce ora un libro pubblicato da Laterza, Contro il non profit (pagine 182, euro 12,00), del sociologo Giovanni Moro, già presidente di Cittadinanzattiva. Rifacendosi al genere del “genus turpe”, Moro si dice «animato da uno spirito costruttivo» nel muovere le sue critiche. La tesi provocatoria è che il non profit «non esiste», ma è stato «inventato» dai ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora, artefici negli anni ’90 della prima grande ricerca internazionale su questo settore. Il perimetro eccessivamente ampio avrebbe prodotto «dati abnormi» nella fotografia di questo mondo – in Italia l’Istat conta trecentomila enti, un milione di occupati, quattro milioni di volontari – generando vari problemi. Tra le moltissime criticità, Moro segnala la «definizione residuale e negativa del non profit», la sua riduzione alla «dimensione economica », il «nocivo fiscalismo», il fatto di aver prodotto «un senso comune che attribuisce al Terzo settore virtù intrinseche» per cui tutto quello che fa «è considerato buono di per sé», mentre esiste un « dark side » molto ampio, dove «un po’ tutto è possibile ». Per mettere ordine nel «magma del non profit» – universo che spazia dalle mense per i poveri alle fondazioni ex bancarie, dalle società sportive alle coop sociali, dalle cliniche ai sindacati, dalle società sportive ai circoli ricreativi, ed regolato da una vera «babele normativa» – Moro propone una «decostruzione» finalizzata a «superare la logica del primato delle forme» e arrivare così a «graduare i benefici in relazione al tipo di attività svolta ». Depurando la solidarietà dal business. Troppo duro? Secondo Gian Paolo Barbetta, che è stato il coordinatore italiano della ricerca della Johns Hopkins (si veda Senza scopo di lucro, Il Mulino 1998), il problema della definizione c’è, ma non è di facile soluzione: «Il merito di quel lavoro è stato di organizzare e portare alla luce un mondo che non era mai stato misurato prima. Ora una migliore selezione si può fare stringendo i criteri, ma sapendo che definizioni che si basano su giudizi di valore più forti, difficilmente potranno essere condivise da persone con retroterra ideologici, culturali o religiosi differenti». L’assenza dello scopo del profitto, per Barbetta, resta comunque un dato distintivo di un modo di operare. Questione non da poco, in un momento in cui anche l’impresa sociale, come prevede un progetto di legge appena depositato, si sta aprendo alla possibilità di remunerare il capitale investito. «Il fatto è che l’utilità sociale ha rotto gli argini e su questo terreno l’economia capitalistica sfida sempre di più il Terzo settore – conviene Flaviano Zandonai, ricercatore esperto di imprese sociali e segretario di Iris Network – . Guardare all’impatto sociale più che alla forma giuridica oggi può essere molto utile. Tuttavia nella ricerca di indicatori ex ante della bontà e del valore sociale, la non massimizzazione del profitto, come anche la governance aperta restano precondizioni molto importanti ». C’è un’accusa che Zandonai respinge con forza: l’idea che l’«invenzione » del non profit sia funzionale a imporre un modello di welfare all’americana nel quale lo Stato non è più centrale. «Il presupposto per cui il non profit ha avuto spazio perché il “pubblico” ha deciso di esternalizzare certi servizi è errato – dice Zandonai – . Lo sviluppo del non profit non è legato allo smantellamento dello Stato sociale, ma al fatto che ha innovato e proposto cose nuove che lo Stato non faceva». Luigi Corbella, commercialista milanese e consulente di molti enti, concorda sul fatto che non profit sia un termine “negativo” e che incorpora una visione aziendalista, preferendo chiamarlo «privato sociale». Mette però in guardia sul punto dell’area grigia. «Nella confusione normativa qualcuno che sfrutta la situazione c’è, lo sappiamo. Ma è un problema di controlli, non di norme. I famosi ristoranti abusivi dei circoli culturali, il fitness e le attività di somministrazione e ricettive in generale, i casi più citati, sono attività commerciali per il fisco». C’è differenza, cioè, tra l’insieme eterogeneo del Terzo settore e le agevolazioni, che operano già una selezione, per quanto riformabile. Non tutto è Onlus, insomma. Ma come superare «la logica del primato delle forme con cui – come argomenta Moro – le burocrazie dominano il mondo»? L’idea è riorganizzare le attività «ex non profit» in nuovi gruppi dove l’interesse generale è valutato «in base al modo in cui si realizza » e agli effetti che produce. Riccardo Bonacina , direttore editoriale di “Vita”, magazine del non profit, appoggia in tutto le tesi di Moro, ad eccezione della «tentazione statalista» che comunque percorre il libro. «Un cambiamento è necessario – dice – a partire dalla riforma del Codice civile che non prevede questo mondo. È ora di uscire dagli schemi americani, decidiamo quali sono le public obligations di questo Paese, quali gli interessi generali, a quali bisogni vogliamo rispondere e chi lo deve fare. Il cantiere va aperto». Ai “lavori”, peraltro già in corso, Moro fornisce un contributo interessante. C’è forse un rischio, in un’operazione che non vorrebbe accodarsi al filone che da qualche tempo ha messo il non profit nel mirino: regalare il piccone a quegli interessi economici e ideologici ostili alla società civile quando diventa “impresa” e che negano a priori il valore del principio di sussidiarietà.