La settimana della moda di Milano è cominciata con un evento che si aspettava con grande interesse: il Fashion Film Festival, organizzato da Costanza Cavalli Etro. Recitava il comunicato stampa: «L’evento si presenta come un’unica vetrina dove convergono affermate e nascenti personalità della moda e del videomaking: un Festival che unisce la forza creativa di artisti e designers emergenti alla maturità ed alla consapevolezza estetica dei grandi nomi». In quanto studioso di comunicazione sociale, per dovere e anche per piacere professionale e istituzionale, ho prenotato un posto alle proiezioni, seduto in mezzo a una folla elettrizzata di giovani in larga parte provenienti da scuole di cinema e di design, pronti ad applaudire ogni minima citazione di grandi maestri del cinema o della fotografia. Man mano che le proiezioni si susseguivano, però, a chi ha trascorso e trascorre la sua vita nel mondo della pubblicità, della videoarte e del cinema internazionali, cominciavano a venire dei dubbi sulla «forza creativa» e sulla «consapevolezza estetica». Vedere tutti insieme tanti progetti audiovisivi, pur realizzati con tecniche raffinatissime, creava un crescente imbarazzo. Perché troppa era la somma di stereotipi estetici ed estetizzanti a base di bianchi e neri squillanti o trattati come pellicole d’inizio secolo, ralenti à gogo, contrasti tra dissolvenze lentissime ed eroici saccheggi musicali di Peter Gabriel o Michael Nyman (o simili), sguardi drammaticamente pensosi di giovani che sembrerebbero voler riflettere sui destini del mondo e invece, dato l’abbigliamento e il contesto, al massimo avrebbero potuto domandarsi dove parcheggiare l’auto per non perdersi l’happy hour. A lungo abbiamo sperato che facesse capolino un qualche tentativo di raccontare una qualsiasi storia, speranza quasi del tutto delusa. Possibile che tanto i «grandi nomi» quanto i «giovani creativi», alle prese con un brand della moda, non abbiano pensato che l’anima di ogni audiovisivo, anche di una singola fotografia, è il racconto di una storia? Come ci ha insegnato Cartier-Bresson, stracitato in molti film della rassegna come altri grandi maestri e registi del passato e del presente, ma non per la sua capacità di raccontare, bensì per l’abilità di saper riprendere un riflesso in una pozzanghera. Sappiamo bene che la pubblicità e la moda propongono spesso dei sogni, ma l’immaginario suggerito dall’insieme dei film che si sono visti è risultato troppo spesso troppo uguale a se stesso, pieno di gesti privi di qualsiasi senso comune o anche fantasioso, di abbandoni e ritrovamenti senza un perché, di camminate in metropoli, deserti e villaggi calcinati dal sole abusati oltre ogni limite. Il tutto sovente condito da dialoghi pronunciati da speaker al limite dello sballo o da profonde voci sospirate, come quelle che straripano con un effetto inconsapevolmente comico da molte pubblicità dei profumi. La riprova è, se ci fosse stato un applausometro, che l’applauso più forte e prolungato lo ha avuto un “corto” che con voluto stile documentaristico “raccontava” come la tradizione della tosatura dell’alpaca e la filatura a opera delle contadine peruviane veniva ripresa da un moderna industria tessile. Si vede che persino i ragazzi non ne potevano più delle citazioni, delle ri-citazioni e degli effetti speciali. Per carità, frequentando per quasi mezzo secolo i festival della pubblicità, specialmente quello di Cannes, di imitazioni ne abbiamo sempre viste, ma su quattromila film, ogni anno, saranno state si è no il 20% del totale. Mentre il paradossale risultato di un evento così potenzialmente interessante è stata la sensazione che nell’immaginario comunicativo della moda e degli stilisti qualcosa si stia inceppando. Forse la manifestazione sarebbe stata più completa se alla proiezione si fosse aggiunta una sessione di analisi e di confronto. E giriamo la proposta alla brillante organizzatrice, cui va riconosciuto il merito dell’idea. Non vorremmo infatti che fosse vero ciò che disse una volta Enrico Intra a un gruppo di amici jazzisti che riflettevano sul fatto che dagli anni 60 in poi, in tutte le arti musicali e visive, ben poche sono state le vere innovazioni come quelle di cui erano stati capaci – per esempio – Louis Armstrong, Duke Ellington o Miles Davis. E da anni invece si vive sommersi da una continua coazione a ripetere e a rifare. «Ve lo dico io perché – sentenziò Enrico –: è perché sono finite le parole».
*Presidente di Pubblicità progresso