martedì 19 marzo 2024
Il musicista torna con il disco “E che cè resta”, con cui stasera, assieme a tanti artisti amici, al Palapartenope di Napoli, rende omaggio alla memoria del fratello scomparso nel 2015
Nello e Pino Daniele in uno degli ultimi concerti

Nello e Pino Daniele in uno degli ultimi concerti - Foto Roberto Panucci

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«Che cosa resta del passato, forse una 500 blu, un giradischi mezzo rovinato, che ormai non va più…». Prima di ascoltare il bellissimo e struggente E che cè resta (Etichetta Playaudio di Azzurra Music), il nuovo album di Nello Daniele - in corsa per il “Premio Tenco” - , la memoria inevitabilmente va a quel gioiello nostalgico che è Gente distratta di suo fratello Pino. Gente distratta che viene e va, forse non si è accorta che sono già passati nove anni senza Pino Daniele (1955-2015), e altrettanti senza un disco di Nello. Un vuoto grande, un dolore incolmabile, la perdita di quel fratello geniale che Nello «prova a calmare un po’, con la musica»: la passione per la chitarra che li ha uniti da quando erano scugnizzi nel quartiere napoletano di Santa Chiara. Pino e Nello, per brevità chiamati musicisti. Ma Pino, diplomato ragioniere si ritrovò «musichiere» e Mio fratello suonava da Dio è il ritratto delicato e pieno d’amore fraterno che ne fa Nello, il quale a forza di andare appresso a quel fratello di dieci anni più grande, dal «maglione rosso, e che all’America preferiva l’Africa», alla fine è entrato pure lui a far parte dell’universo della musica d’autore.

Ma il percorso di Nello è cominciato tardi...

Il mio primo album l’ho inciso a 33 anni. Prima ho fatto il manager di concerti per tour importanti: Gino Paoli, Ornella Vanoni, Dalla-Morandi... Poi ho cominciato a salire su un palco, ma per pudore, senza presentarmi. Sono stati 25 anni di gavetta, vissuti con coraggio, passando dal jazz al blues fino al folk, ma sempre nel pieno rispetto della musica, perché «la musica va rispettata», questo è il primo insegnamento che mi diede Pino.

Quella musica delle origini riparte da canzoni come Mio fratello suona da Dio.

È il titolo del primo brano che apre E che cè resta con cui sono pronto per il tour Acqua Salata che seguirà all’uscita, a maggio, del nuovo singolo. Questa e altre canzoni dell’album saranno anche il mio omaggio personale, questa sera, al Palapartenope di Napoli dove tutti gli amici artisti di Pino si ritroveranno al “Memorial ‘Je sto vicino a te”. Lo facciamo per ricordare e festeggiare quello che sarebbe stato il suo onomastico e anche il 69° compleanno. Sarà una serata all’insegna del “Neapolitan Power Folk”, perché abbiamo bisogno di suonare la nostra musica e di cantarla nella nostra lingua, perché questo è quello che voleva Pino.

La musica di Pino e anche quella di Scià Scià, che chiude un album che è un viaggio antropologico in una Napoli città teatro e da sempre anche operaia.

Pe strade ‘e Pummigliano è il mio tributo a un artista verace quale è stato Salvatore Alfuso, detto Scià Scià. Inventò il folk a Pomigliano: fronn e limone e tammuriata era la sua cifra stilistica, portata avanti con il gruppo politico musicale delle Nacchere Rosse. Pe strade ‘e Pummigliano ricorda lo scoppio, nel 1975, della fabbrica di giocattoli Flobert a Pomigliano e si ricollega al brano O Lavoro di Scià Scià che finì nel disco di Enzo Gragnaniello e Dario Fo, con quest’ultimo che era affascinato dall’artista napoletano che aveva conosciuto ai tempi de Il mistero buffo.

E che cè resta è un album che sicuramente sarebbe piaciuto a a Scià a Scià e a Pino, perché cantato in lingua madre.

Il napoletano è una lingua di nicchia che però parla a tutti i popoli del mare. È la lingua dei miei luoghi dell’anima e in cui ovviamente dialogo anche con Pino e l’altro mio fratello, Salvatore che se ne è andato due anni fa. Per tutto questo tempo ho navigato nel mio dolore, poi finalmente mi sono rimesso a studiare la chitarra, come faceva Pino che se ne stava anche otto ore al giorno sullo strumento, e al di là del suo talento è anche per questo che alla fine suonava da Dio, e lo faceva già quando aveva 16 anni.

E Nello che faceva da ragazzo?

Ascoltavo quei fenomeni come Pino, tipo Wayne Shorter, Pat Metheny. Avevo la musica dentro, ma anche dopo sei album resto un autodidatta che ha fatto di una passione un mestiere. Però sto molto attento a non farmi imprigionare da un sistema in cui ormai si valutano più i numeri dei like, perché quelli fanno il “personaggio”, piuttosto che i testi e la musica che l’artista, e non il personaggio, riesce a creare.

È un un universo musicale che gli va stretto?

Mi muovo nel mio mondo, consapevole che è un momento particolare e se vogliamo anche un po’ assurdo se un dj è più famoso e più pagato di un musicista. Oggi si arriva al successo e alla popolarità molto in fretta, ma altrettanto velocemente si diventa meteore, anche magari dopo aver riempito gli stadi per tutta un’estate. Ma gli 80mila al San Paolo per Pino c’andavano senza il tam-tam dei social, ed erano lì non per vedere esibirsi nani e ballerini, ma per ascoltare la sua chitarra e la sua voce, unica.

La napoletanità è il respiro profondo dell’album.

È la prima volta che registro un disco tutto in dialetto. C’è anche un brano di Pino, Sud scaveme ‘a fossa, che è l’essenza del nostro spirito meridionale. Lui l’aveva eseguita in un concerto nel 1980 senza mai inciderla, perché è una canzone dura, con espressioni forti e colorite che però quarant’anni dopo, rimettendo mano ai vari frammenti, mi sembra opportuna, per niente offensiva e quanto mai attuale... Un piccolo miracolo, mi sono accorto cantandole, è che le canzoni di Pino arrivano sempre al cuore, anche a quello dei più giovani.

L’attualità parla di un Sanremo in cui è stata offesa la napoletanità di Gioelier.

Negli anni ’80 sono stato un ultrà della Curva B e quando ripenso al razzismo dei veronesi contro noi napoletani sorrido ricordando lo striscione che facemmo su “Giulietta...”. A Sanremo c’è stata la classica discriminazione generata dalla giornalista un po’ ignorante alla quale dopo la vittoria di Gioelier nella serata dei duetti è scappata la domanda infelice: «Tu ti senti di aver rubato?». Lo stereotipo del napoletano che ruba fa male, specie se rivolto a Emanuele, un ragazzo pulito, umile e cresciuto “sano” come me e Pino. Gioelier paga una sola colpa: è entrato in empatia con gli adolescenti di Secondigliano e Scampia e poi il fenomeno si è allargato a tutti i ragazzi d’Italia, perché la sua canzone la cantano tutti. Era già successo con Rocco Hunt, ma forse questi nostri ragazzi adesso danno fastidio. Con la loro voce e il loro successo trasparente, hanno spezzato quella retorica insopportabile sulla Napoli “eterna Gomorra” che evidentemente è più funzionale al dibattito politico, ma è assolutamente fuorviante.

Uno dei più bei titoli della letteratura napoletana è Il resto di niente , il romanzo di Enzo Striano. Il suo disco invece fa i conti con ciò che resta...

Restano nostalgie forti per un mondo che ormai vive solo dentro di me. Noi ci aggrappiamo sempre al passato, ma spostandomi da Napoli a Siena, grazie agli affetti, a mia moglie e a mia figlia, ho imparato a vivere bene anche nel presente, che poi è l’unica risorsa se vuoi programmare il futuro. E che cè resta è nato in casa e mentre lo registravo ho ritrovato pezzi della mia infanzia e ho avvertito ancora più forte il richiamo delle radici. Famiglia e chitarra per Pino sono stati la vita. A me, famiglia e chitarra me l’hanno salvata la vita.

Forse anche un gancio dal Cielo ha attutito il suo dolore e ridonato quella speranza che si avverte in E che cè resta?

Siamo cresciuti nella nostra parrocchia, la chiesa del Gesù Nuovo: lì ci sta “O Dottore”, san Giuseppe Moscati… Pino era credente certo, portava da sempre un laccetto con un Cristo. Io dico che chi ha cuore non può che credere. Senza Pino e Salvatore che, quando tornavo a Napoli mi aspettava alle cinque del mattino nella nostra casa di famiglia per prendere il caffè assieme, mi sento più solo, ma ringrazio il Signore ogni mattina quando mi sveglio e vedo un raggio di sole che entra nella stanza. La risposta a quale sia il senso della vita credo di essermela data nella canzone Acqua salata, ognuno di noi provi a berla quell’acqua e a togliersi la sete, che spesso è solo il peso dei peccati di una vita.

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