«Abbiamo visto la prima vera luce, siamo arrivati a cogliere il calore prodotto dal Big Bang, quella radiazione incredibilmente intensa che colmò l’Universo appena nato e ancora lo pervade, e risplende su di noi con un microwatt per metro quadrato. Quella luce che abbiamo visto è la condizione di ogni conoscenza, anzi "della" conoscenza». John Mather, Nobel 2006 per la fisica, sembra ancora sopraffatto dall’emozione della scoperta, e si rivela in grande sintonia con il tema del Meeting. Sente la conoscenza proprio come qualcosa che irrompe dall’esterno. Con George Smoot, anche lui premiato con il Nobel, Mather è stato l’artefice di «Cobe» (Cosmic Background Explorer, il satellite scientifico che ha fornito una prova molto forte della teoria del Big Bang). Ha poi dedicato le sue energie creative al James Webb Space Telescope, il più potente telescopio mai costruito, da lanciare nel 2014 (la data precisa dipende dal reperimento di fondi): servirà a studiare l’evoluzione dell’Universo «giovane». Quando gli assegnarono il Nobel, Mather disse che lo meritavano anche il migliaio di ingegneri che, suddivisi in molte squadre, avevano lavorato al progetto Cobe: «Tutti insieme sono riusciti a realizzare qualcosa che non era mai stato realizzato prima, per scoprire ciò che prima non era mai stato conosciuto». Al Meeting di Rimini, mercoledì 26 agosto, parlerà dell’esperienza umana della ricerca scientifica e dei valori che mette in gioco.
Lei non è il primo scienziato che abbia ricevuto il Nobel per gli studi sulla radiazione cosmica di fondo. Può spiegarci perché il vostro Nobel è diverso dai precedenti?«Noi abbiamo "fotografato" l’Universo così come appariva solo 300 mila anni dopo il Big Bang, ossia 13 miliardi di anni fa. Quando avviene la "grande esplosione", e dalle dimensioni di un punto l’Universo prende ad espandersi, rapidamente la temperatura, da altissima, scende e si arriva in circa venti minuti alla radiazione cosmica che possiamo misurare oggi. L’hanno scoperta, casualmente, Arno Penzias e Robert Wilson, ma Cobe ha fornito un elemento-chiave : la radiazione cosmica di fondo è assolutamente omogenea, come vuole il modello del Big Bang, eppure contiene delle anisotropie, cioè dei nuclei di disuguaglianza, di disomogeneità, attorno ai quali si è raccolta la materia rendendo possibile la formazione delle stelle, dei pianeti, e della nostra Terra. Insomma: benvenute le anisotropie».
Quando le chiedono di descrivere il suo stato d’animo all’arrivo dei primi dati inviati da Cobe, lanciato nel 1989, lei risponde che quella fu "la prima vera luce". Per lei, come per i pittori, la conoscenza è letteralmente luce?«La luce spiega la storia dell’Universo e la nostra. Ci dà la vita attraverso la fotosintesi, impegna uno dei nostri cinque sensi e ci permette di guardare indietro nel tempo verso il Big Bang. Albert Einstein studiò la luce per sviluppare la teoria della relatività. Grazie alla luce possiamo comunicare con gli altri esseri senzienti che vivono su questa terra e forse, lontano da noi, anche nello spazio (ma le probabilità di scoprirli sono poche). Per parlare con gli astronauti usiamo la radio, che è una forma di luce. E ora arrivano novità. Anche elettroni e protoni si comportano come onde di luce, in una maniera che non finisce di stupirci. Infine, dovunque andiamo accendiamo la luce. E ci sorprendiamo di fronte al suo dolce mistero».
L’amore per l’astronomia le è nato da bambino, è diventato un punto fermo nella sua vita quando a undici anni ha avuto in regalo da suo padre un piccolo telescopio e lo ha usato in cima alle colline della Virginia. Ora, dopo il Nobel e dopo i 14 anni di lavoro per il James Webb Telescope, a che cosa guarda?«L’amore per la conoscenza è sbocciato con la lettura; c’erano le biblioteche mobili che facevano il giro della contea. Passavo notti intere a leggere. Mia madre era fin troppo paziente e sopportava i miei esperimenti di robottini spaziali. A scuola ho avuto sempre successi poi, sapendo che non basta essere un pesce grosso in un laghetto, sono andato a studiare a Berkeley, all’Università della California. Il resto della mia vita di scienziato si è svolto e si svolge entro gli spazi del Goddard Space Flight Center della Nasa, una grande organizzazione piena di talenti. Ricordo che, quando esplose il Challenger, il 28 gennaio del 1986, dovemmo affrontare la tragedia frenando il dolore: ridisegnammo la missione del James Webb Space Telescope. Di questo progetto sono "senior project scientist". Per il futuro ho progetti avveniristici (ma non so se avremo le risorse finanziarie per attuarli). Fra le idee che ho coltivato, quella di far entrare un grande telescopio miniaturizzato, cioè compresso, in un piccolo veicolo spaziale molto economico. E non dimentichiamo un obiettivo che è sempre sullo sfondo della ricerca spaziale: trovare, fuori dal sistema solare, pianeti simili alla Terra, e scoprirvi le condizioni essenziali per la vita».