«Il linguaggio rende possibile il pensiero – scrive Diego Osorno –. Segna la differenza tra ciò che è umano e ciò che non lo è». Forse è per questo che il Messico dei narcos è una “terra di silenzio”. Non c’è spazio per le parole nel bel mezzo di una delle guerre più violente e invisibili del ventunesimo secolo: 130mila omicidi, decine di migliaia di sfollati, 27mila desaparecidos “ufficiali” e 100mila potenziali. O, forse, come dice lo scrittore Juan Villoro, non esiste un sistema linguistico in grado di contenere tanto orrore. Di sicuro, i potenti cartelli della droga – che, con la complicità spesso di alcuni “pezzi” di Stato, si contendono l’enorme territorio a sud del Rio Bravo – impediscono di trovarlo. O, almeno, si sforzano di farlo. Spesso ci riescono: 81 giornalisti assassinati e 17 scomparsi negli ultimi 14 anni – per attenersi solo ai casi registrati da
Reporter Sans Frontières –, lo dimostrano. A volte, però, le parole sono più ostinate dei “cuernos de chivo” (i kalashnikov). E le voci rompono il silenzio. Anabel Hernández e Diego Osorno raccontano da tempo, nelle loro inchieste, il Messico insanguinato dal crimine. È il loro modo di rivendicare il più elementare dei diritti umani: quello di pensare. E di parlare. Entrambi sono in Italia per partecipare al Forum internazionale contro le mafie di Roma. E presentare i loro ultimi lavori:
La terra dei narcos, esplosivo libro-inchiesta di Hernández pubblicato da Mondadori, e
Un cowboy attraversava la frontiera in silenzio, evocativo romanzo-reportage di Osorno edito da La Nuova Frontiera. Dopo il dibattito congiunto di ieri, oggi Osorno incontrerà ancora il pubblico alla Fiera della piccola e media editoria della capitale.
Fra tre giorni celebreremo il 66esimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani approvata dall’Onu. Come si presenta il Messico, 14esima economia mondiale, all’appuntamento?Anabel Hernández:«Impreparato, a dir poco. Il governo messicano deve molte spiegazioni alla comunità internazionale sulla cronica violazione dei diritti umani nel Paese. È indubbio che l’attuale esecutivo del presidente Enrique Peña Nieto abbia ereditato una nazione in macerie. È pure vero, però, che quest’ultimo si è dimostrato completamente incapace di gestire la situazione. Negli ultimi otto anni, le Nazioni Unite hanno presentato tre reclami al Messico: per le decine di migliaia – ad essere ottimisti – di
desaparecidos, per violenze sistematiche commesse dalla polizia e dall’esercito e per l’impunità. L’attuale governo – proprio come il precedente – le ha ignorate. Anzi, ha cercato di vendere all’estero – con una martellante campagna di comunicazione – l’immagine di un Messico “stabile e vincente”, in fase di boom e di riforme. Poi c’è stata la tragedia di Iguala. E il trucco si è sciolto, mostrando una faccia piena di rughe...».
Osorno: «La situazione è indubbiamente difficile: la violenza non diminuisce – anzi aumenta – e così pure l’impunità. Finora, inoltre, nessun’autorità ha mostrato un progetto serio di riforma per combattere realmente il crimine, profondamente infiltrato nelle strutture dello Stato. L’unica buona notizia è che finalmente, dopo la strage di Iguala, il mondo si è reso conto della crisi profonda in cui è precipitato il Paese. E la pressione internazionale può costringere il governo ad agire».
Di fronte a una crisi di tali proporzioni, che senso ha la professione giornalistica? E che cosa significa fare il reporter della guerra non dichiarata ma feroce del Messico?Hernández: «Un articolo non cambia la storia. Un lavoro collettivo di indagine giornalistica, però, può farlo. Se in ogni regione riusciamo a rompere il silenzio imposto dalle mafie e dalle autorità corrotte, se smascheriamo i collusi, diamo alla gente la possibilità di capire. E, dunque, di opporsi. Certo, essere giornalista nel Messico attuale è una sfida quotidiana. Per non assuefarsi alla violenza, per non considerare una nuova vittima solo un numero in più... Per ricordarsi che abbiamo una responsabilità nei confronti della società. Per non cedere alla paura. Anche se quest’ultima non si vince mai del tutto. Sta sempre lì, in agguato. Per fortuna ho i miei due ragazzi, che sono il mio equilibrio. Certo, spiegare perché la loro madre ha dovuto prendersi un anno “sabbatico” negli Stati Uniti dopo le continue minacce non è facile. La mia figlia maggiore spesso mi dice: “Sostieni di farlo per lasciarci un Messico migliore. Che me ne faccio io del Messico se perdo te?”. È duro spiegarle che la questione trascende lei e me. C’è in gioco il futuro dei suoi figli, dei suoi nipoti, bisnipoti....».
Osorno: «Senza l’esercizio giornalistico critico degli ultimi anni, l’inferno messicano sarebbe ben peggio. Forse il giornalismo non potrà impedire un massacro, ma può cercare i responsabili e denunciarli. Ho dovuto scegliere tra vivere giorno dopo giorno in modo meccanico e indifferente di fronte a ciò che accade nel Paese o rischiare. Abbandonando le parole di una realtà comoda e trovare quelle adatte per descrivere questa situazione così difficile. Certo a volte si finisce nei guai… Le faccio un esempio. Qualche anno fa ho seguito l’omicidio di un maestro di ping pong, colpito durante una sparatoria in modo apparentemente casuale. Apparentemente appunto. Scavando, ho scoperto un intreccio perverso con alcuni politici di spicco. Ho pubblicato la storia, sono stato minacciato e ho dovuto lasciare il Messico per un po’. E io che credevo di aver scelto, per una volta, un caso “senza rischi…”».
A 34 anni, lei Osorno è “l’enfant prodige” del giornalismo narrativo latinoamericano. I suoi reportage, proprio come i suoi libri, sono in perenne bilico tra letteratura e cronaca... Osorno: «Mi interessa la letteratura nella misura in cui mi aiuta a raccontare in modo migliore una notizia, a mostrare qualcosa che il potere non vuole si dica o che la società non riesce a vedere. Una denuncia giornalistica senza letteratura rischia di diventare un pamphlet».
E lei Anabel Hernández, dopo questo periodo di pausa all’estero dovuto alle continue minacce, pensa di tornare in Messico?Hernández: «Sì, il mio futuro è lì. Già ora, rientro in Messico molto spesso per portare avanti le mie inchieste. Non ho intenzione di andare in esilio né di smettere di indagare. Altrimenti permetterei ai narcos di vincere...».
C’è speranza per il Messico o i narcos sono davvero così invincibili come sembrano?Hernández: «Non lo sono anche se vorrebbero farci credere di esserlo... I corrotti e i criminali hanno nomi e cognomi. Se li smascheriamo ed esigiamo giustizia, il Paese potrà uscire dal tunnel. La reazione di fronte al caso Iguala ci ha mostrato che il Messico è ancora vivo. Spetta a tutti noi non lasciarlo morire...».
Osorno: «I narcos possono essere vinti. E la società li sconfiggerà. Certo quanto ci vorrà dipende dallo Stato. Se quest’ultimo deciderà di fare pulizia al suo interno e di schierarsi dalla parte delle persone contro il crimine, i narcos avranno i giorni contati...».