Oggi la scrittrice Herta Müller riceverà a Stoccolma il premio Nobel per la letteratura per aver dipinto «con la forza della sua poesia e la crudezza della sua prosa il panorama dei deportati». Alla tedesca d’origine rumena verrà dunque riconosciuto il prezioso lavoro di cronista della quotidianità in un regime dittatoriale e ancor più di maestra nella conservazione e nell’elaborazione della memoria. Da più parti, in questi mesi d’inattesa esposizione mediatica, le è stato chiesto con una punta di veleno quando inizierà a scrivere della Germania, sua attuale patria, e dell’attualità. Sentendosi così implicitamente accusata di «scrivere solo del passato», la Müller ha risposto dalle pagine del settimanale
Zeit definendo la domanda «strana», visto che «per autori come Primo Levi, Jorge Semprün o Georg-Arthur Goldschmidt nessuno si sognerebbe di mettere in discussione il loro impegno con i crimini nazisti». Oggi residente a Berlino, dove giunse nel 1987 dopo essere fuggita dal proprio Paese insieme a Richard Wagner, allora suo marito, la scrittrice è rimasta fedele al vincolo che la lega al passato anche nel suo ultimo libro pubblicato in Germania,
Atemschaukel («Altalena di fiato», 2009), col quale racconta la storia di un giovane della minoranza tedesca rumena deportato in un lager sovietico dopo la seconda guerra mondiale. Una vicenda ritagliata sulla biografia di Oskar Pastior, dal quale, nonostante la ritrosia del poeta e traduttore a riaprire e a parlare delle proprie, antiche ferite, la Müller poté attingere direttamente, prima della sua morte improvvisa, nel 2006. «Aveva raccontato della sua deportazione solo marginalmente – ha ricordato la scrittrice in un’intervista alla
Frankfurter Allgemeine –, perché era un uomo addomesticato e impaurito dal lager. Dopo la sua morte mi sono bloccata, ma alla fine mi sono convinta che con questo libro lui in qualche modo avrebbe continuato a vivere». Del resto la Müller ha sempre ammesso di essere approdata alla poesia e alla narrativa perché alla ricerca di uno strumento di liberazione di fronte alle catastrofi sperimentate durante l’infanzia e le giovinezza vissute in Romania (il padre convinto nazista, la guerra, le deportazioni, i soprusi sotto la dittatura di Ceausescu). E la sua è una lingua che nell’essenzialità riesce ad evocare, che nel nominare gli oggetti della quotidianità consuma il tentativo di realizzare, come la chiama lei stessa, una «pantomima del vissuto», cerca di «giungere in prossimità dell’essenziale». Neppure l’inatteso riconoscimento del Nobel è riuscito a scalfire lo sguardo della Müller rivolto all’essenziale: «Non voglio che questo premio mi cambi – ha dichiarato nei giorni scorsi a
Le Monde –. In Romania ho integrato la paura della morte al quotidiano. Per non affondare ho tentato di conferire una normalità agli avvenimenti eccezionali».Della sua religiosità, la Müller non ha mai voluto parlare troppo apertamente. «Conoscevo i barboni, le voci dei lamenti, i segni della croce e le imprecazioni, il Dio nudo e il diavolo meschino», racconta la donna protagonista de «Il paese delle prugne verdi» (Keller Editore, 2008), costruita sull’autobiografia della neo Premio Nobel. Alla stessa si rivolge più avanti la religiosissima protagonista Margit con queste parole: «Sei cattolica dalla nascita e un giorno comincerai di nuovo a pregare. Dio ha abbastanza tempo, più di noi uomini». Rispondendo a
Le Monde, la scrittrice ha voluto ricordare come al catechismo le si dicesse che «Dio è ovunque». Un ricordo cui non ha potuto evitare di aggiungere, con ironia: «Effettivamente è stato il primo dittatore!». E tuttavia va sottolineato come la citata Margit, l’ungherese che «baciava il Gesù di ferro sulla croce» e comunque non rinunciava a «imprecare», sia un personaggio positivo, descritto dalla Müller con evidente simpatia. La stessa conclusione dell’intervista al giornale francese rivela una chiara coscienza di appartenenza della scrittrice tedesca al mistero: «I nostri corpi ci sono prestati per un certo tempo, poi Dio chiede che gli siano resi».