Il fantasma si manifesta a Montecitorio, attraversa l’emiciclo, raggiunge il banco del governo e apre la giacca della grisaglia in modo da mostrare la camicia crivellata di colpi, il petto macchiato di sangue. Non dice una parola, fino a quando il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, non prova a trattenerlo. «
Noli me tangere<», risponde Aldo Moro prima di scomparire per l’ultima volta. Si conclude così, con una citazione evangelica che ha il tono dell’enigma,
Altare della Patria (il Saggiatore, pagine 180, euro 14,00), il libro con cui Ferruccio Parazzoli torna, per la seconda volta in pochi anni, sul dramma di Aldo Moro. Il volume attuale, infatti, incorpora il testo di
Adesso viene la notte, apparso nel 2008, e lo integra con un nuovo pannello narrativo. Una ripresa che va di pari passo con la riproposta della
Trilogia di Piazzale Loreto, in uscita negli Oscar Mondadori (pagine 330, euro 9,50). In
Adesso viene la notte il protagonista era Paolo VI, messo alla prova dal rapimento e dalla morte di Moro, l’«uomo buono e onesto» per la cui incolumità il Papa si era rivolto direttamente alle Brigate Rosse in una lettera rimasta memorabile. Ora al centro della scena troviamo lo stesso statista, inutilmente circuito da Satana con la promessa di una salvezza disonorevole. Un cambio di prospettiva, forse addirittura un pentimento rispetto alla stesura originaria?«Direi piuttosto un senso di colpa – risponde Parazzoli –. Mi sono reso conto di aver rappresentato Moro soltanto come vittima, ma questo non mi è parso giusto, né sufficiente. Perché, se ci pensiamo bene, il vero protagonista del dramma è lui, il dilemma etico che lo riguarda è ancora più grande della sfida (che avevo ipotizzato in precedenza) tra Dio e il Diavolo per saggiare la fede del Papa».
È la scommessa che sta all’origine della vicenda di Giobbe.«Esattamente. In
Altare della Patria, invece, tornano gli interrogativi sul sacrificio di Isacco. Il confronto a distanza è tra Kant e Kierkegaard. Il primo era convinto che Abramo si fosse sbagliato: la voce che aveva sentito non era quella di Dio, perché Dio non lo avrebbe mai invitato a uccidere il figlio. Per il pensatore danese, al contrario, non c’era stato nessun errore. Secondo lui Abramo aveva davvero sentito la voce di Dio, un Dio che pare porsi al di là dell’etica per costringere l’uomo a misurarsi con il paradosso della fede».
Moro però muore veramente, nessun angelo scende dal cielo a salvarlo…«Perché dopo Isacco viene Cristo, che scardina ogni convinzione consolidata. Non per niente nel mio racconto immagino che, come Gesù, anche Moro sia condotto da Satana sul pinnacolo del tempio, che in questo caso è il tempio della Stato. Il Vittoriano, l’Altare della Patria. Lì il tentatore tenta e il giusto resiste alla tentazione, consegnandosi al tradimento e alla morte».
La sua è un’interpretazione estrema, se ne rende conto?«Può darsi, ma mi stava a cuore ridare centralità a una figura come quella di Moro, che rimane inespressa, e quindi incompresa, nella storia d’Italia. La sua prosa aveva fama di oscurità, ma rileggendo il suo ultimo discorso ho riscoperto un testo di densità oracolare, nel quale c’è tutta l’angoscia di un uomo che parla nella consapevolezza di non poter essere compreso. Anche lui, come papa Montini, stava cercando di dire e di fare qualcosa di nuovo, rompendo una sorta di crosta che gravava sulla società italiana. Operazione pericolosa, come si è visto. Mortalmente pericolosa».
Il suo racconto è molto documentato, ma l’interpretazione è poi risolta in chiave visionaria. Come mai?«Già Wittgenstein sapeva che i fatti, di per sé, sono soltanto fatti. Siamo noi che attribuiamo loro un senso, attraverso un procedimento che è solo in parte razionale e per il resto è innervato di emozioni, di percezioni impossibili da giustificare per via logica. Illudersi che i fatti bastino a sé stessi è la grande eresia del nostro tempo, quel nichilismo debole, oggi così diffuso, che induce a non affaticarsi nella ricerca di senso, perché intanto un senso non c’è. Questo, almeno, è quello di cui ci vorrebbero convincere».
Ed è qui che entra in gioco la visione?«Sì, il compito della letteratura sta nello scandagliare, destrutturare e interpretare la realtà con uno sguardo dall’alto. Ma questo non significa far calare uno schema precostituito o una soluzione aprioristica. C’è da correre un rischio, ancora una volta, fosse pure il rischio di essere fraintesi».
Si riferisce al fatto che «Altare della Patria» potrebbe essere letto come un libro politico?«Beh, è quello che mi auguro. Vede, si continua a ripetere che l’Italia di oggi è figlia degli anni Ottanta, il periodo del cosiddetto riflusso. Ma a spazzare via tutto, a produrre il ribaltamento dei valori e il degrado della convivenza è stata semmai la stagione di sangue degli anni Settanta. Quella che ha in Aldo Moro la sua vittima designata. Da oltre trent’anni, infatti, facciamo di tutto per dimenticarla».