Scrutando l’orizzonte dai bastioni della cittadella di La Valletta sferzati da un vento freddo e implacabile, quasi si intravedono fra quelle onde agitate arrancare fatiscenti barconi carichi di migliaia di disperati senza nome: in 219mila hanno solcato il Mediterraneo nel 2014 secondo i dati Unhcr, ne sono morti 3.500, ma di certo sono molti di più. Per questo assume ancora più senso che tutte le tv e le radio del Nord e del Sud del Mediterraneo si siano date appuntamento proprio qui, a Malta, per discutere su come raccontare l’emergenza. A riuscire nell’impresa è stata la Copeam (Conferenza permanente dell’audiovisivo mediterraneo) presieduta dal libanese Talal El Makdessi e dal segretario generale Pier Luigi Malesani, che ha organizzato, in collaborazione con la tv pubblica maltese Pbs, la propria 22ª conferenza annuale a Malta, che si chiuderà oggi, sul tema “Il Mediterraneo e l’esodo delle popolazioni: il ruolo dei media”. Duecento i partecipanti provenienti da 26 Paesi (fra cui Algeria, Austria, Egitto, Francia, Germania, Giordania, Italia, Libano, Malta, Marocco, Mauritania, Palestina, Regno Unito, Siria, Tunisia, Turchia).«Ma non è stato facile proporre questo tema a certi paesi – spiega il segretario generale Copeam Malesani –. Perché mettere in luce il problema dei profughi, è vissuto come una critica al Paese che lasciano. Proprio per questo hanno importanza i progetti di coproduzione fatti insieme, come quello dell’anno prossimo, 12 documentari sempre sul tema delle migrazioni». Insomma, lo sguardo sulla migrazione cambia di prospettiva, man mano che si scende verso Sud, a partire da Malta, estremo lembo dell’Europa. «Noi stiamo proprio sulla linea di confine – spiega Tonio Portughese, presidente della maltese Psb –. Dobbiamo raccontare la realtà, ma anche non allarmare la popolazione che si sente sotto assedio ed evitare il pregiudizio». Un tema che sta a cuore a monsignor Charles J. Scicluna, appena nominato arcivescovo di Malta, ieri presente all’apertura dei lavori. «Noi abbiamo l’obbligo di assistere e accogliere questi fratelli, provenienti da zone di conflitto», ci spiega raccontando il forte impegno della Caritas diocesana e dei Gesuiti maltesi. «I media devono essere un servizio importante per rappresentare la verità del dramma, ma andrebbe dato risalto anche a tante storie di generosità, all’eroicità della gente normale che rischia la vita per salvare in mare quella degli altri – spiega –. Occorre, poi, denunciare il mercato nero del lavoro che sfrutta questa gente al loro arrivo in Europa e raccontare storie belle di integrazione e il lato umano del ricongiungimento dei familiari». Ma una volta sbarcati a ritroso sulle coste meridionali del Mediterraneo, la prospettiva si ribalta. «Noi facciamo molte produzioni per dire ai nostri ragazzi di non partire per mare, perché rischiano la morte – spiega il rappresentante della tv di stato algerina Hakim Amara –. Quindi li invitiamo ad aderire ai nuovi programmi governativi che supportano le micro imprese giovani». La stessa tendenza in Egitto è confermata dal regista di Ch1, Walid Hassam: «Io stesso ho fatto dei documentari in cui mostravo quant’era pericoloso emigrare illegalmente portandoli tra la gente delle periferie del Cairo. Molti, influenzati dalle immagini di benessere provenienti dall’Europa via satellite, partono rischiando la vita». Migranti, comunque, verso cui «occorre evitare l’accostamento immigrato/terrorista», precisa Annamaria Tarantola, presidente della Rai e vicepresidente dell’Uer, rilanciando al contempo il dibattito «su come conciliare il dovere di informare e il dovere di non prestarsi anche involontariamente alla propaganda mediatica del terrore» sull’esempio di RaiNews che ha deciso di non trasmettere più i video dell’Is. Tema raccolto da Mohamed Salem Bouke, presidente dell’Islamic Broadcasting Union che raduna 57 emittenti: «Noi dobbiamo lavorare insieme per raccontare il terrorismo perché abbiamo approcci troppo differenti. Quelli che uccidono non hanno nulla a che fare con l’Islam: Tunisia, Libia, Parigi sono tutti atti da condannare». Insomma, troppe divisioni. C’è chi, come la Giordania, paese che ha accolto 4 milioni di profughi dalla vicina Siria, parla di «un problema di trasparenza dovuto al boom dei media – dice Nida Rawabdeh, caporedattrice della tv giordana Jrtv –. Noi della tv pubblica cerchiamo di fare un racconto veritiero e umano della migrazioni, ma abbiamo poche forze mentre ci sono ben 45 canali privati non giordani che non sono gestibili». L’argomento resta spinoso: «Perché il cinema non produce nessun film sul tema delle migrazioni?», domanda pubblicamente il rappresentante della tv di stato del Marocco. Replica il presidente del Copeam, nonché presidente della tv libanese Makdessi che attacca a testa bassa la politica: «L’esodo è un business di mafia, dobbiamo essere forti e coraggiosi e lavorare insieme per la dignità della persona. Occorre parlare ai diretti responsabili dell’esodo. Molte televisioni pubbliche fanno solo propaganda governativa, ma il problema sono proprio quei governi che non garantiscono la democrazia. Il problema è uno solo: l’educazione. Finche ci saranno analfabeti, l’estremismo non avrà fine».Calca la mano l’ambasciatore siriano Al Kassir, ex rappresentate della Lega araba: «La tragedia umana di questa gente è responsabilità dei paesi da cui partono, e anche in tv dobbiamo raccontare la verità. E proporre la mediazione nei conflitti. L’unico vero ruolo importante lo ha il Vaticano che parla sempre di una soluzione pacifica». Il tunisino Hatem Atallah, presidente della Fondazione Anna Lindh per il dialogo nel Mediterraneo ringrazia per il sostegno internazionale al suo Paese: «Il dialogo è essenziale in questo momento di cambiamento culturale. C’è una grande ignoranza reciproca fra le due parti del Mediterraneo. Ma proprio nei momenti drammatici l’informazione corretta aiuta ad essere vicini senza distinzioni».