mercoledì 22 ottobre 2014
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Un interrogativo spesso sollevato oggi concerne l’invasione nella nostra vita sociale e politica delle logiche e pratiche amorali del mercato economico. Fino a che punto possiamo imbrigliare i mercati e le cosiddette privatizzazioni? C’è qualcosa di minaccioso nella potenza del denaro, qualcosa di intrinsecamente malsano nell’impersonalità dello scambio commerciale. In qualche modo l’economia è una belva da non lasciar libera nella società nel suo insieme, e specialmente in ambiti come la tutela della salute, l’educazione, la politica e lo sport. C’è, tuttavia, un ulteriore interrogativo che a mio parere merita di esser sollevato; un interrogativo che incontriamo quando proviamo a riflettere sulla possibilità di addomesticare la belva: esistono mercati morali? Può, la belva, essere non solo imbrigliata e semi-addomesticata, ma resa autenticamente mansueta? E un simile addomesticamento non sarebbe implicito nella natura stessa dello scambio di mercato, che non è, alla fine, pura aggressività operante in astratto, ma un aspetto normale delle culture umane, inseparabile dalle normali pratiche di reciprocità e conclusione, con mutuo vantaggio, dei cicli dell’umana esistenza.Vorrei cominciare affrontando la questione al contrario, dal lato dalla genealogia: come siamo arrivati a pensare che economia e moralità sono in conflitto? Perché guardando alla storia nel suo insieme, quest’idea sembra estremamente singolare. A questo riguardo credo che sia bene tracciare un confine tra "piazza del mercato" (marketplace) e "mercato" puro e semplice (market), dove la prima espressione sta per ogni genere di attività di scambio che, come suggerisce il riferimento a un luogo preciso, tende a sussistere in una cornice di valori morali prestabiliti e di una altrettanto stabile visione sia del ruolo di ciascuno nell’ordine sociale (per relativamente ugualitario che sia quest’ultimo) sia delle attese che su esso si fondano. Di conseguenza, si dovrà distinguere tra scambi nella piazza del mercato, che possono avvenire in un luogo preciso, e scambi di mercato nell’altro senso, l’attuale senso capitalistico, in cui la funzione del termine "mercato" significa che i contratti di scambio saranno smaltiti al punto d’incontro fra domanda e offerta.Il secondo senso di "mercato" ha contraddistinto l’Occidente in misura crescente solo dal secolo XVIII, per cui non c’è motivo di considerarlo qualcosa di dato e naturale. Semmai, dovremmo considerarlo, nei termini di Karl Polanyi, qualcosa di socialmente determinato e, allo stesso tempo, politicamente istituito. E sempre Polanyi coglie nel segno quando afferma che oggi, paradossalmente, concepiamo la società come contenuta nell’economia invece del contrario, poi mostra che una simile nozione è illusoria perfino nella nostra attuale situazione capitalistica. E aggiunge che in realtà anche un’economia capitalista si colloca in qualche antropologia, in qualche nozione di essere umano, in qualche interpretazione di cosa sia la società e come sia opportuno governare e promulgare le leggi.Se il moderno mercato, in quanto distinto dalla piazza del mercato, è tuttora situato in queste cornici, è lecito continuare a considerarlo qualcosa di politicamente istituito. È solo perché il processo dell’offerta e della domanda sembra funzionare automaticamente, che abbiamo l’impressione che sia puramente naturale anziché (com’è in effetti) il risultato di una serie di scelte politiche che hanno privilegiato la crescita economica aggregata invece di una più ampia definizione dell’umana prosperità. Analogamente, ci sfugge che il moderno "libero" mercato è definito da un insieme di misure legislative che assolutizzano proprietà e contratto separandoli dalle consuetudini, dall’eredità e dai doveri, distinguendo progressivamente una sfera privata, assoluta e riservata di guadagno e rendita fondiari, dalla patente di responsabilità dell’azionista.Perciò da questo punto di vista il mercato moderno non è naturale, ma istituito, e il rovesciamento del rapporto col sociale che colloca la società nel mercato nasconde l’esser tuttora il mercato all’interno di un’emendata concezione del sociale; una concezione che, in modo piuttosto bizzarro, cerca di distillare il consenso sociale dalla santificazione dell’autonomia individuale. In realtà il diritto di essere stimata naturale spetterebbe alla piazza del mercato, che storicamente ha prevalso quasi sempre. E la piazza del mercato è, in modo ben più lineare, collocata dentro il sociale e sorretta, in un modo o un altro, da un qualche ordine politico e giuridico; questo anche quando, come nelle società tribali, si tratta di un ordine il più possibile distribuito, decentrato ed esercitato inconsciamente tramite una rigida pratica rituale. Perciò anche la piazza del mercato, pur essendo in qualche misura naturale, lo è solo nel senso un po’ misterioso che quasi tutti i consorzi umani, per quasi tutto il loro passato storico, sembrano averla impiegata "naturalmente" in base alle stesse soggiacenti opzioni culturali.Ma allora, quali sono le decisive differenze economiche tra mercato e piazza del mercato? Prima di tutto, come sottolineato da Polanyi e altri autori, nella seconda certe cose erano sacre, non commerciabili, non soggette a entrare nel circuito del dono e dello scambio. In particolare, come osservato da Polanyi, le persone, la terra e il denaro erano cose con cui era stimato illecito speculare ed effettuare scambi; le persone e la terra perché sacri, il denaro per l’opposta ragione di essere un mero strumento da non innalzare a idolo o feticcio. Quel tanto di sacro che poteva esserci nel denaro era l’effigie del sovrano riprodotta sulle monete, a garanzia del fatto che la sua tutela della giustizia includeva l’ambito degli scambi di beni.
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