L’Italia ai piedi, calpestata o chissà solo ammirata. È un’immagine forte e sorprendente quella che accoglie il visitatore di Comunità Italia , la mostra della Triennale di Milano dedicata all’«Architettura, la Città, il Paesaggio fra il 1945 e il 2000». È lo scatto acuto di Ugo Mulas dell’ Italia di Luciano Fabro, fra gli esponenti del-l’Arte povera, alla Galleria di Niebourg, nel 1969. La scultura dello stivale a terra, fra i piedi di chi la osserva, che fa il paio con la famosa Italia appesa , sottosopra. O l’italia di cartoccio, del dolore, dei pupi e ipocrita . Lo specchio della situazione del Paese, nello scorrere del tempo. Basta un passo ed eccoci immersi nella Città orizzontale degli edifici dai piani curvi e continui di Pietro Consagra, simbolo di una ribellione della scultura contro l’abuso razionalista dell’angolo retto: «La Città Frontale è possibile, può nascere oggi e dovrebbe già essere impiantata; non è una città del futuro», diceva l’artista siciliano di Mazara del Vallo, morto a Milano nel 2005 che ha voluto essere sepolto a Gibellina, in quel pezzo di terra che si è reinventata dopo il terremoto del Belice nell’esperimento di architettura e arte che ha rianimato il paesaggio. Un esordio che sì, sorprende e per certi versi spiazza.
Deve essere così. Perché il viaggio nell’Italia che cambia dal Dopoguerra, fra l’architettura e il paesaggio da riscrivere, non può essere lineare e fa i conti con la difficoltà di guardare con la giusta distanza un pezzo di secolo che «continua ancora nell’oggi», «troppo forte il peso di tutto ciò che ancora impedisce di vedere: ideologie, abitudini, omissioni», ammette Alberto Ferlenga, curatore della mostra insieme a Marco Biraghi. Quel che è certo, quando ci si lascia la Guerra alle spalle e il Paese si riprende e vive il boom economico, è la voglia di costruire segni visibili della ripresa e liberare la creatività.
Non a caso la prima vera stanza della mostra è un cantiere, dove l’architettura parla con i dettami dell’ingegneria, fra tubi innocenti che ci invitano a mettere un caschetto in testa e arrampicarci sulle impalcature del costruendo Pirellone di Gio Ponti. Mentre nella parete di fronte campeggiano le riviste che hanno raccontato e raccontano l’architettura italiana (Casabella, Domus, Abitare...) e libri cult del settore. «I libri degli architetti sono proposte di città, scritte o disegnate che siano », diceva d’altra parte Aldo Rossi (1931-1997) autore di un classico come L’architettura della città e progettista che ha lasciato importanti opere (alcuni plastici, come quello della ricostruzione del Teatro Carlo Felice di Genova, sono visibili nel percorso al piano basso del palazzo di Giovanni Muzio). Idee in cantiere, potremmo sintetizzare, con diversi mondi che si aprono, fra modelli che hanno fatto scuola, ma anche utopie e avanguardie, nella narrazione del paesaggio italiano, senza troppe classificazioni. Ci sono i nomi più importanti Antonio Citterio, Italo Rota, Luigi Caccia Dominioni, Renzo Piano, Luigi Cosenza ma anche Francesco Cellini, Vittorio Gregotti, Giancarlo De Carlo, Maurizio Sacripanti, Antonio Monestiroli e tantissimi altri.
«Vogliamo rappresentare la geografia di un territorio, fisico e culturale, descrivibile come un unico paesaggio fatto di innumerevoli diversità, oppure ancora come un’unica città fatta di parti di diverse città, e di una comunità di architetti che nei più svariati linguaggi ha declinato una relazione fertile e benefica con i luoghi in cui ha operato», spiega Biraghi (il catalogo-libro della mostra, edito da Silvana, raccoglie tanti e significativi contributi che approfondiscono singoli casi). In altre parole: «L’unica vera comunità cui sono attribuibili gli architetti nostrani tra il secondo dopoguerra e la fine del secolo è quella definita dall’appartenenza a un territorio eccezionale come quello italiano.
Un territorio dove sembrano permanentemente sospese le “logiche” correnti». Una indagine che aggancia altre forme artistiche, la pittura e la scultura certo, ma a partire dagli anni Settanta soprattutto la fotografia: non mancano allora gli scatti di Luigi Ghirri, Giovanni Chiaramonte, Mimmo Jodice, Gabriele Basilico e prima di loro Ugo Mulas, Paolo Monti e Mario Giacomelli, che accompagnano il visitatore verso la sala centrale dei progetti, oltre settanta, in cui sembra di fare il giro d’Italia in poche centinaia di metri: dalla Torre Velasca di Milano ai Collegi universitari di Urbino, dalla Facoltà di Architettura di Palermo alla fabbrica di Pozzuoli della Olivetti. Già Olivetti e l’idea di “Comunità” che l’illuminato ingegnere provò a disegnare con le sue fabbriche tra il 1945 e il 1960. Come un cerchio che si chiude.
«Un’idea forse irreale – ricorda Ferlenga – e poi di fatto irrealizzabile. La comunità in questo senso risulta una proiezione mitica, un ideale da inseguire, più che un obiettivo concretamente raggiungibile». Un sogno. Prima di perderci fra gli schizzi dei taccuini degli architetti, disegni colorati, idee da appuntare subito quando ancora tablet e pc non avevano conquistato il mondo. Gli schizzi “moderni” sono i video di un minuto di un progetto assai bello e innovativo, “Italy in a frame”, che propone un racconto collettivo del paesaggio antropizzato italiano. Fra meraviglia, criticità e ironia di una Italia “Comunità”. Nonostante tutto.
Milano, Triennale Comunità Italia
Architettura/Città/Paesaggio 1945-2000
Fino al 6 marzo 2016