venerdì 1 agosto 2014
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Se 15 milioni di follower vi sembrano pochi (tanti sono i “seguaci” del profilo Twitter di papa Francesco), provate a immaginare una cifra che oscilla tra i 60 e i 200 milioni: «È il numero di volte in cui ogni messaggio del Santo Padre viene “ritwittato”», spiega il presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, monsignor Claudio Maria Celli. «Un risultato del genere – aggiunge – sarebbe stato impensabile fino a pochi anni fa. Ed è la conferma che la Chiesa non può non essere presente nelle reti sociali». In visita-lampo a Lerici, in provincia di La Spezia, dove mercoledì sera ha ricevuto il premio intitolato alla memoria di Angelo Narducci, monsignor Celli si è intrattenuto a lungo con i sacerdoti della diocesi locale e con il pubblico dell’ormai tradizionale Festa di «Avvenire», passando in rassegna sfide e opportunità dell’era digitale.  «L’errore da evitare – avverte – sta nel pensare che la comunicazione sia un settore pastorale da affiancare agli altri. Non è così: la comunicazione non solo attraversa tutta la vita della Chiesa, ma ne costituisce la stessa ragion d’essere. La Chiesa esiste per comunicare, ha sempre comunicato e non può smettere di farlo proprio adesso». Entrato nel servizio diplomatico della Santa Sede nel 1970, monsignor Celli è stato chiamato a guidare il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali nel 2007, quando il continente digitale stava iniziando a rivelarsi in tutta la sua vastità. «Pensiamo a un documento come il decreto Inter Mirifica, che pure riveste un ruolo cruciale all’interno del Concilio Vaticano II – osserva ancora monsignor Celli –. Il contesto di riferimento è quello dei primi anni Sessanta: la comunicazione si articola in una serie di strumenti (la radio e la televisione, il cinema e la carta stampata) e la Chiesa si interroga su quale sia il modo più opportuno per servirsene. Si tratta di un quadro che, in sostanza, rimane immutato per diversi decenni, fino all’ultima fase del pontificato di Giovanni Paolo II, nel corso del quale si iniziano a registrare i primi mutamenti. Ma è nell’ultimo decennio che la rivoluzione digitale si dispiega con una rapidità e con una serie di conseguenze del tutto inattese. Continuare a ragionare di strumentazione mediatica, a questo punto, non ha più senso. I media digitali sono descrivibili semmai in termini di ambiente, di condivisione, di “rete” appunto».  Una vicenda vivacissima e affascinante, nella quale si intrecciano le personalità e gli insegnamenti dei Pontefici che si sono susseguiti nell’ultimo mezzo secolo. A monsignor Celli, per esempio, sta particolarmente a cuore l’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, promulgata da Paolo VI nel 1975: «Il digitale è di là da venire, d’accordo, ma la consapevolezza della posta in gioco è già fortissima. Papa Montini, in particolare, arriva ad affermare che “la Chiesa si sentirebbe colpevole di fronte al suo Signore” se non intervenisse nell’ambito della comunicazione “con audacia e saggezza”, due doti che mai come oggi si confermano necessarie ». E che si ritrovano, non a caso, nell’opera e nel pensiero di Benedetto XVI. «Ricordo ancora quando gli proponemmo l’apertura di un canale della Santa Sede su YouTube – dice monsignor Celli –. La sua risposta fu semplice e immediata: “Voglio essere lì dove gli uomini di oggi sono”. Un criterio poi confermato dalla scelta di attivare il profilo del Papa su Twitter e da tante riflessioni preziose. Una, su tutte, si conferma di straordinaria attualità. È il discorso al mondo della cultura pronunciato da Benedetto XVI a Lisbona nel 2010, laddove il Papa invoca il principio del “rispetto dialogante” in termini che descrivono benissimo la complessità degli ambienti digitali: “La convivenza della Chiesa, nella sua ferma adesione al carattere perenne della verità, con il rispetto per altre ’verità’, o con la verità degli altri, è un apprendistato che la Chiesa stessa sta facendo”».  E papa Francesco? «La mole dei retweet è già di per sé eloquente – risponde monsignor Celli –. Altre personalità internazionali, come il presidente Obama, possono avere un numero maggiore di follower, ma nessuno di loro gode di un ascolto tanto capillare e diffuso. È la dinamica tipica del mondo digitale, per cui la parola del Papa riesce a coinvolgere chi magari non metterebbe mai piede in chiesa, ma viene raggiunto lì dove già si trova. Dopo di che, però, c’è bisogno di una comunità che prosegua nel mondo reale quest’opera di accoglienza. Di sicuro Francesco ha dalla sua un’autenticità travolgente, come dimostrano le testimonianze, sempre più numerose, di persone che si riavvicinano alla fede o tornano alla pratica sacramentale perché colpite dai suoi gesti e dalle sue parole. Quando invoca una Chiesa “in uscita”, capace di tenere sempre aperte le porte e di esprimersi con atteggiamento materno, papa Bergoglio indica con chiarezza la strada di quella “cultura dell’incontro” che, infatti, lui stesso ha voluto porre al centro del suo primo messaggio per la Giornata delle Comunicazioni sociali». Dalla Festa di «Avvenire» a Lerici, dove ha ricevuto il premio Narducci, l’intervento di monsignor Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali: «I media non sono più strumenti ma ambienti. Le comunità cristiane favoriscano un’autentica cultura dell’incontro e del rispetto dialogante»
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