Nell’avventura umana e pedagogica di un maestro e di uno scrittore (che va rivalutato anche in questo senso) come Alberto Manzi, conosciuto da tutti per la trasmissione-cult degli anni Sessanta «Non è mai troppo tardi», ci sono aspetti che devono essere ancora approfonditi e fatti conoscere. Solo in questo modo la lezione di Manzi potrà essere rivalutata a tutti gli effetti e avere quel ruolo centrale nell’innovazione educativa che le spetta, ponendo il «maestro d’Italia» accanto ad altre esemplarità di un nuovo modo di intendere la scuola: Mario Lodi, Gianni Rodari, Albino Bernardini il maestro di Pietralata, e anche don Milani, al quale l’esperienza pedagogica di Manzi viene spesso assimilata.Nodo centrale di questo cambiamento di prospettiva nella lettura integrale della sua avventura umana, non considerato ad esempio dalla
fiction mandata in onda ad inizio anno dalla Rai, è il rapporto del maestro televisivo con i Paesi più poveri dell’America Latina, un interesse che attraversa tutta la sua vita, con numerosi viaggi e soggiorni, tutti all’insegna di quella linea educativa che vedeva la necessità dell’istruzione come possibilità di prendere coscienza dei propri diritti e del senso della dignità umana. Non a caso, in un suo libro Alberto Manzi sottolineava come «non si può parlare di educazione se prima non si comprende appieno il significato della parola libertà».Il primo viaggio in Sudamerica Manzi lo compie prima di condurre la trasmissione televisiva che lo avrebbe reso famoso, e dopo aver scritto uno dei libri per ragazzi italiani più tradotti all’estero, ormai un «classico contemporaneo»:
Orzowei. Manzi parte nel 1955, dopo aver ricevuto dall’università di Ginevra un incarico per compiere delle ricerche scientifiche (aveva una laurea in Biologia) nella foresta amazzonica. Egli stesso ricordava: «Vi andai per studiare un tipo di formiche, ma scoprii altre cose che per me valevano di più», ad esempio la dura vita degli indios, il loro sfruttamento, la necessità di insegnare loro il valore della libertà.Alberto Manzi si muove tra Ecuador, Perù, Bolivia, Colombia e Brasile, da solo o accompagnato da studenti universitari, in stretta collaborazione con i missionari salesiani. Ma il suo impegno diventa sempre più scomodo: dopo che le sue scelte controcorrente di insegnare agli indios e di far loro imparare a leggere e a scrivere erano diventate sospette e sgradite, numerosi Stati non gli rilasciano più il visto. Allora il maestro inizia un vero e proprio «programma di aiuto solidale», in forte anticipo sui tempi e sulla necessità di formarsi attraverso uno sguardo multiculturale.La realtà che vede e che conosce diventa anche materia per i suoi scritti: già alcune impressioni dei primi viaggi vengono raccontate in alcuni articoli pubblicati sul settimanale cattolico per ragazzi
Vittorioso, poi per anni collabora alla rivista
Cem Mondialità dei missionari saveriani. L’esperienza in America Latina diventa anche l’aspetto tematico per una serie di romanzi, scritti fra il 1974 e il 1997:
La luna nelle baracche, El loco, E venne il sabato, quest’ultimo rimasto inedito dopo la morte di Manzi nel 1997 e pubblicato per la prima volta solo una decina d’anni fa (ora viene riproposto da Baldini & Castoldi, pp. 494, euro 17); libri che raccontano la realtà vissuta dall’autore e trasposta in un romanzo corale, secondo la poetica del realismo di scrittori come Josè Maria Arguedas e Manuel Scorza, che hanno avuto una profonda influenza sul maestro italiano.La ristampa di
E venne il sabato, che è il più strutturato dei romanzi e quello in cui Manzi riversa tutta la forza di un’esperienza fortemente morale, è fondamentale; l’autore racconta dei suoi amici, facendoli diventare personaggi del libro (egli stesso vi appare, celato sotto la figura dello «straniero»): dal salesiano Giulio Pianello, incontrato nell’Amazzonia peruviana e con il quale resterà sempre in contatto, condividendo gli intenti di alfabetizzazione degli indios e di denuncia degli abusi delle multinazionali, ad altri sacerdoti indigeni come padre Juan Pablo e padre Rodas.Il romanzo è ambientato a Pura, piccola città della foresta brasiliana dove la popolazione è costretta a lavorare in condizioni di schiavitù per l’Amazon Company. Manzi racconta senza retorica la vita dei raccoglitori di caucciù in tutto il suo orrore, ma anche quella dei reclusi – in gran parte per motivi politici – nella prigione che sorge ai margini della città. Imponendo la loro «legge», i «signori in nero» reprimono nel sangue ogni ribellione; tuttavia grazie all’aiuto di don Juan Pablo e don Julio, alla rabbia interiore della giovane Nàiso, all’ingenuità del vecchio Gongo, alla sensibilità delle donne, la gente di Pura sa che soltanto la solidarietà, la resistenza, la rivolta nonviolenta, l’educazione e la scuola la porteranno a riconquistare la dignità.Una scelta che spiega il senso della promozione umana in cui ha creduto il maestro Manzi, ma anche il punto centrale del suo «romanzo pedagogico»: la necessità di guardare all’altro come fosse se stesso, tanto che a un personaggio fa dire: «Quando devo fare una cosa, mi metto nei panni degli altri. Ogni altro sono io, capite? Ogni altro, sono io».