(Distacco dell'intonaco sulla facciata nord)
Ed ecco Palazzo Te. Nome curioso, ma poi non troppo per chi ne conosce la genesi. Nel XVI secolo, Mantova era costituita da 2 grandi isole. Ve n’era poi una terza, più piccola, detta "Tejeto": lì Giulio Romano eresse la grande villa. L’architetto pittore la fece tra il 1526 e il 1534, e di quella primitiva fabbrica esistono disegni firmati nel 1567 da Ippolito Andreasi. Già nel 1630 si ha la certezza che il complesso fosse ritenuto un’opera d’arte: con questa motivazione, i lanzichenecchi lo risparmiarono dal sacco della città. Non solo. Già nel XVI secolo, Francesco II Gonzaga lo scelse come luogo in cui addestrare i suoi cavalli, e pure quale residenza per i periodi di riposo e di svago. Un luogo dunque prezioso e immenso, da primo Cinquecento onore e onere dei mantovani. Il primo intervento conservativo sulle facciate pare risalga al 1726, anche se le fonti cristallizzano con certezza quello di poco successivo: l’intervento globale tra il 1774 e il 1784, a cura dell’Accademia virgiliana (scuola universitaria istituita nel 1768 con il nome di "Reale accademia di scienze e belle lettere", ancor oggi attiva ma trasformata in alto centro culturale) e dell’architetto neoclassico Paolo Pozzo: il mastro architetto dell’"Accademia di belle arti", nel secondo Settecento grande incubatore dell’attività artistica mantovana. Fondamentale il 1874, anno in cui lo Stato trasferì la titolarità del bene in capo al Comune. Da tale data - spiega Nascig - è possibile stabilire con precisione il susseguirsi degli interventi». Per esempio, i restauri del 1942-43 alla facciata nord, poi ritoccata nel 1968 per eliminare infiltrazioni di acqua piovana. E poi quelli imponenti del 1988.
(Facciata ovest)
Sotto il profilo tecnico, i frontespizi del palazzo sono «costituiti da una muratura in mattoni di laterizio, legati con malta di calce e sbozzati ove formano il bugnato rustico. Il paramento murario è rivestito mediamente da due sottili strati di intonaco colorato, perlopiù frutto del restauro operato negli anni Ottanta del Novecento. La miscela consiste in grassello di calce (uno dei componenti dell’intonaco, ndr), calce idraulica naturale (si utilizza in ambienti umidi, ndr) e sabbia di fiume per lo strato di arriccio (malta che costituisce il secondo strato di finitura per affreschi o mura grezze, ndr)». Ma parte della facciata sono anche le inferriate («Ferri quadri forgiati a mano», con gli «elementi orizzontali inseriti nelle asole ricavate in quelli verticali») e i «canali di gronda in rame con cicogna in ferro». Delle 2 facciate, nord e ovest, Nascig precisa che «l’analisi è stata finora condotta solo a livello visivo e fotografico», ma che «un secondo stadio d’approfondimento sarà possibile con l’avvicinamento alle superfici grazie ai ponteggi». Già ora, però, è stato possibile intercettare «significativi distacchi sul basamento e lacune del rivestimento a intonaco di calce provocati dall’umidità di risalita e favoriti dall’esiguo spessore degli strati di protezione». Situazione, questa, che favorisce «l’aggressione degli agenti atmosferici» e le conseguenti «colonizzazioni biologiche». Animaletti dannosi, tanto per intenderci, oltre che muffe e funghi. E tanto più presenti nella facciata nord, più sfavorevolmente esposta.
(Facciata nord)
Ed ecco la "medicina" per muri, intonaci ed elementi decorativi. Che consisterà innanzitutto nell’«accurata rimozione delle porzioni di intonaco non più coerenti con il supporto, sulle murature del basamento e sulle fasce inferiore e superiore dello zoccolo». Nella sostanza, si tratterà di asportare le parti che si stanno staccando, eliminando pure i corpi estranei portati dal tempo. Saranno poi puliti i giunti di malta tra i mattoni (Nascig parla di «scarnitura») e le superfici, utilizzando la spazzolatura. Ma anche quella dei lavaggi con «acqua deionizzata, in caso di consistenti concentrazioni saline». Contemporaneamente, i laterizi decoesi verranno riaggregati con infiltrazioni di silicato di etile. Il lifting riguarderà poi gli intonaci: tutta la superficie verrà battuta manualmente, e a seconda del rumore prodotto le fini orecchie dei restauratori circoscriveranno con certezza i punti che soffrono di un principio di distacco. Così, se non saranno già presenti fessurazioni, per consentire le iniezioni di miscele leganti verranno praticati minuscoli fori con piccoli trapani manuali. E in caso di intervento su grandi superfici? «Puó rivelarsi utile una compressione dell’area durante l’immissione del consolidante», valuta l’architetto. Che sempre per questa situazione non esclude di dover ricorrere all’ «ancoraggio meccanico con perni in teflon o vetro resina», soprattutto per le aree più ammalorate. Ovviamente, come sempre in questi lavori, le parti d’intonaco mancante verranno risarcite, e quelle infestate da animaletti vari sottoposte a trattamenti biocidi. Mezzi meccanici opereranno invece sulle inferriate delle finestre, con l'obiettivo di eliminare anche in questo caso i materiali aggiunti dal tempo. Sarà poi la volta del tradizionale antiruggine, dato a pennello. A completare i lavori, la sistemazione dei raccordi tra tetti e facciate: nuova grondalina in rame e sostituzione delle attuali cicogne in ferro. Ed ecco che dopo aver esposto i lavori, Nascig sottolinea la loro "cifra": e cioè la riscoperta delle «buone pratiche di cantiere, senza intonaci premiscelati, nè macchine che lo spruzzano». Al contrario, «bisognerà riscoprire il valore della manualità», tecnica indispensabile «per non far venir meno la percezione del bugnato». Insomma, si tratta di tornare alla magia di 500 anni fa. Quando dalla bonifica di un'isola paludosa emerse un tesoro. Per la città, per l’Italia intera.