venerdì 13 novembre 2015
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«L’utero in affitto è l’ennesimo sfruttamento del corpo delle donne povere del mondo. Come se non bastassero gli altri tipi di sfruttamento che tutti conosciamo, ci mancava solo questo. È una barbarie di cui nessuno parla. In questo mondo in cui vige la regola “Pago, lo voglio!”». Lo scorso maggio Fiorella Mannoia, artista di cui si riconosce la schiettezza, oltre al grande talento artistico e all’impegno sociale, aveva criticato senza mezze misure la pratica dell’utero in affitto sul suo profilo Facebook. Mannoia continuava decisa: «Non tutto si può avere nella vita, facciamocene una ragione, almeno non a costo di sfruttare la miseria altrui. Portare in grembo una creatura, sentirla crescere dentro di te per nove mesi, allattarla al tuo seno e consegnarla nelle braccia di altri e non vederla mai più è l’atto di generosità più grande che una donna possa fare, non ce ne sono altri di questa portata. Solo se non c’è il denaro di mezzo posso accettarla. Tutto il resto puzza di sfruttamento e mercimonio». Una posizione coerente con il suo impegno per gli ultimi. In questi giorni Fiorella sta producendo il nuovo album di Loredana Berté e presto la vedremo nel ruolo di operaia nel film di Michele Placido Sette minuti, ma ha trovato il tempo di prestare il volto alla campagna Amref Mai più senza mamma per raccogliere fondi per aiutare le donne africane a partorire senza rischi e accetta di parlare con Avvenire, giornale che ha ingaggiato da tempo una battaglia solitaria su questo fronte, dello sfruttamento del grembo delle donne. Le sarà costato, esporsi in questo modo su un argomento così scottante... «Ho detto quello che penso e alcuni mi hanno attaccato per questo, e proprio per questo vorrei fare una premessa». Prego. «Sono a favore dei matrimoni gay, penso che agli esseri umani, quando c’è amore fra di loro, niente è proibito. Che possano sposarsi è un atto di civiltà. Rispetto la posizione della Chiesa che ha tutto il diritto di essere contraria, così come i cattolici hanno il diritto comportarsi secondo il loro credo. Su questo non ci sono dubbi. Ma penso che uno Stato laico debba pensare anche a chi questa convinzione non ce l’ha. Detto questo, io pongo l’interrogativo sull’utero in affitto». Ci spieghi meglio perché. «Lo pongo perché in realtà quello è un gesto d’amore che credo solo una sorella e una madre possano fare, il resto si rischia che sia un ulteriore sfruttamento del corpo delle donne, perché nella maggior parte dei casi quegli uteri provengono da Paesi poveri». C’è chi la accuserà di voler negare il “diritto alla genitorialità” delle coppie omosessuali o di chi non riesce ad avere figli. «Adozioni internazionali e uteri in affitto sono pratiche adottate soprattutto dagli eterosessuali, non solo dagli omosessuali. Ma non è questo il punto. Per me, non bisogna mai dimenticarsi che si rischia lo sfruttamento del corpo femminile. Io mi sono sempre battuta perché le donne non vengano sfruttate, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo che non hanno le attenzioni che si hanno nei Paesi occidentali. Non ho paura di essere tacciata di essere quella che vuole negare la maternità. Non voglio negare la maternità a nessuno, ma nella vita non tutto si può avere. Andare a sfruttare una povera donna per la propria felicità, è eticamente e profondamente sbagliato». In queste situazioni ingarbugliate non dovrebbero venire per primi i diritti dei bambini? «Non metto in discussione la buona fede di chi vuole un figlio, sono certa che queste persone gli daranno il meglio, ma occorre interrogarci su cosa vuol dire la nostra felicità Perché così facendo possiamo giustificare anche il il traffico di organi. Serve un organo per mio figlio che sta morendo, lo vado a prendere a qualcun altro. Dove? Nei Paesi in via di sviluppo. E chi controlla? Questo mercato, purtroppo non teorico, degli organi per salvare noi e i nostri figli sta sulle spalle di altri e di altri figli. Non bisogna mai dimenticare che c’è una sola parola per tutto questo: è “etica”». Una parola che il mondo occidentalizzato pare avere dimenticato... «Noi siamo abituati a prendere dove vogliamo e quando vogliamo, siamo abituati a fare da padroni dove non dovremmo andare. Noi sacrifichiamo per la nostra felicità la vita degli altri ed è un interrogativo che dobbiamo porci una volta per tutte. L’immigrazione è frutto di questa logica. Il nostro benessere poggia sullo sfruttamento di interi popoli, di milioni di esseri umani che hanno solo la sfortuna di essere nati laggiù». E lei “laggiù” c’è stata.. «Spesso per motivi umanitari vado in Brasile, un Paese con enormi sacche di povertà. Non un Paese povero, perché ha immense risorse, ma un Paese ingiusto. Il mio legame con l’Africa è partito con il disco Sud e col tour insieme a tanti artisti africani. In Africa sono andata nel 2013 in con Amref e ho anche ricevuto una onorificenza in Benin: sono cavaliere del Panafricanismo per aver divulgato la figura di Sankara, il primo presidente del Burkina Faso. Io ho visto in Africa donne con i figli in collo e la tanica sulla testa che per prendere l’acqua percorrevano a piedi 5 o 6 chilometri al giorno ogni giorno. Questo è troppo lontano da noi ma bisogna parlarne. È il problema alla radice di questo esodo biblico, che non si fermerà se non ci prendiamo le nostre responsabilità e non rendiamo questo mondo più etico». Da cosa dovremmo ripartire? «Noi non abbiamo più sensibilità, ci abituiamo ai morti in mare come ci abituiamo alla pioggia. Sono vite con affetti, sogni, speranze, come noi e i nostri figli. Noi dobbiamo cambiare le nostre abitudini. L’Africa ha bisogno di infrastrutture, scuola, indipendenza economica, di sovranità alimentare. Dobbiamo aiutarli a formare una classe dirigente di giovani istruiti che possano prendere in mano le sorti del Paese. Ma questo non fa comodo a nessuno, anzi, se le cose peggiorano nascono i conflitti, possiamo vendere le armi e via dicendo». Lei, comunque, nel suo piccolo cerca di “fare” a favore delle mamme. «Ogni giorno muoiono 800 donne di parto di cui 400 muoiono in Africa. Ci sono migliaia di bambini che restano orfani solo perché mancano quelle piccole, stupide accortezze sanitarie come acqua e sapone che salverebbero due vite umane, la mamma e il bambino che restando orfano va a incrementare tutti i traffici di cui parlavamo prima. Ho aderito alla campagna di Amref perché loro lavorano non per l’Africa ma con l’Africa, formando delle ostetriche e degli operatori locali che poi ne formeranno altri».  Fiorella, ma in tutto questo, lei ha pensato mai a Dio? «Certamente. Intimamente mi sento più religiosa di tanti. Non mi sono mai definita atea, non lo sono anche se colui che sta lassù non so come chiamarlo. Prego poco perché il Signore o chi per lui mi ha dato tanto. Io devo solo ringraziare e mi rivolgo a Lui per questo».
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