domenica 31 agosto 2014
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Prima che diventasse uno spettro che aleggia sulle nostre vecchiaie con la diffusione delle malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer, l’oblio è stato un’antica aspirazione dell’uomo, dalle pozioni di cui si dà la ricetta nell’Odissea al farmaco che disperatamente cerca il Macbeth shakespeariano per lenire il rimorso della moglie dopo il delitto fino agli esperimenti più bizzarri che furono tentati per fare superare i traumi ai reduci delle Guerre mondiali. Oggi la ricerca si è fatta più raffinata e nei laboratori neuroscientifici si studiano rimedi per i disturbi da stress post traumatico, quelle gravi sindromi ansiose che possono affliggere le vittime di incidenti, aggressioni e disastri naturali, fino a rendere loro impossibile una vita normale.  I possibili interventi di manipolazione della memoria sull’essere umano passano però da una migliore comprensione dei meccanismi molecolari del ricordo, e ciò è possibile su modelli animali. La ricerca da un paio di decenni va a una velocità sempre più sostenuta: sul sito della rivista Nature è stato pubblicato tre giorni fa uno straordinario esperimento realizzato dal gruppo del premio Nobel giapponese Susumu Tonegawa, attivo da molti anni al Mit di Boston. Gli studiosi sono infatti riusciti a “invertire” nei topi la valenza emotiva di ricordi positivi e di ricordi spiacevoli. Si è trattato, in sostanza, di fare sì che il luogo in cui gli animali avevano ricevuto una scossa elettrica non suscitasse più timore ed evitamento e che tali reazioni sorgessero invece nel luogo in cui gli animali avevano avuto l’esperienza piacevole dell’incontro con un esemplare dell’altro sesso.  Ciò che è semplice a dirsi risulta frutto di una eccezionale sofisticazione tecnica, oltre ad aprire interessanti prospettive e sollevare interrogativi etici. Per anticipare un esempio, sembra che il responsabile del barbaro omicidio avvenuto domenica scorsa a Roma ai danni di una donna ucraina fosse stato psicologicamente sconvolto dalla morte improvvisa della fidanzata due anni fa proprio il 24 agosto, giorno in cui nel 2013 aveva avuto una grave crisi e in cui nel 2014 ha infierito su una persona indifesa.  Forse un trattamento che gli avesse permesso di considerare quella data come neutra se non festosa avrebbe evitato il delitto, ma è anche intuitivo che trasformare nella propria mente un lutto in una gioia ci sembra ripugnante come fare festa a un funerale di un congiunto. Ovviamente, si tratta di un risultato ottenuto su cavie di laboratorio e ogni applicazione sull’uomo è ancora lontana (e si capirà il motivo). Ma sono certamente promettenti sia le conoscenze di cui disponiamo sia gli strumenti che si sono messi a punto. Innanzi tutto, adesso sappiamo con maggiore precisione come si fissano e dove sono immagazzinati i ricordi. La memoria è la rappresentazione di esperienze passate codificata, grazie a una cascata di eventi molecolari, in reti di neuroni che si attivano insieme o in sequenza. In particolare, la rappresentazione di un luogo specifico – il ricordo del “dove” – è codificata nell’area denominata ippocampo. Un’area diversa, l’amigdala, codifica il ricordo del “cosa” marcato da una coloritura positiva o negativa.  Durante l’apprendimento questi due elementi si saldano, cosicché possiamo dire che il topo ricorda l’esperienza negativa dal suo comportamento successivo, quando evita di stare nel luogo in cui ha subito la scossa o cerca il luogo in cui ha incontrato un partner. Ma come agire su queste minuscole aree? Qui viene in soccorso l’optogenetica, una frontiera recentissima delle neuroscienze che sfrutta la proprietà di alcune proteine sensibili alla luce, individuate nelle alghe. Ai topi, con l’iniezione di un virus innocuo, è introdotta in situ e serve a marcare i neuroni che codificano i ricordi in una finestra temporale circoscritta, grazie a un antibiotico che ne blocca l’espressione e che viene sospeso solo per un certo periodo. Una volta codificati i ricordi nei neuroni “marcati”, una luce blu emessa da una fibra ottica inserita nel cervello all’inizio dell’esperimento può riattivare a piacimento e indipendentemente le memorie, sia del “dove” sia del “cosa”. E le prime, quelle situate nell’ippocampo, sono risultate malleabili alla stimolazione e alla “riscrittura”, permettendo appunto l’inversione tra luogo e esperienza positiva/negativa.  In linea di principio, la complessità e la fitta interconnesione dei ricordi umani sembra rendere improbabile un intervento simile sulle memorie, tuttavia – come sottolinea Pietro Pietrini, psichiatra dell’Università di Pisa e tra i fondatori della Società italiana di Neuroetica – «siamo davanti a una dimostrazione del versante neuronale della psicoterapia: i ricercatori sono riusciti a disconnettere un evento dal sentimento spiacevole che l’accompagnava. Ciò che si ottiene con la parole ha un preciso corrispettivo nel cervello. Se ancora non si vede un’applicazione clinica diretta, è comunque straordinario il fatto che siamo oggi in possesso di veri “interruttori” capaci di accendere o spegnere un singolo neurone. E ciò permette di comprendere le basi dei meccanismi associativi dell’apprendimento, ma ci consegna anche un nuovo grande potere, con i relativi problemi morali».
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