A luglio Norman Manea compirà 79 anni. Troppi, dice, per mettere in conto un nuovo trasferimento. Eppure, se potesse , lo scrittore romeno non avrebbe dubbi e sceglierebbe l’Italia come ennesima tappa del suo esilio. «Mi piace l’atmosfera del vostro Paese: cordiale, creativa, accogliente. È un clima che si instaura con naturalezza, niente e nessuno vi obbliga a essere come siete», ripete in una luminosa mattinata milanese, all’indomani della trasferta a Percoto, in provincia di Udine, dove ha partecipato alla cerimonia conclusiva del premio Nonino, da lui vinto nel 2002 e di cui è attualmente giurato. Il Saggiatore ha appena portato in libreria
Varianti di un autoritratto (traduzione di Anita Natascia Bernacchia e Marco Cugno, pagine 282, euro 19), un volume che raccoglie gran parte dei suoi racconti, riorganizzati in quello che Manea stesso definisce «un romanzo di formazione e deformazione». C’è un protagonista ricorrente, che gli assomiglia molto ma non è mai esattamente lui.«La vede la parola in copertina? – avverte – Così come un ritratto non è una fotografia, un autoritratto non può mai pretendere di essere obiettivo. Entra in gioco l’interiorità dell’artista, in un processo di introspezione che è molto evidente, per esempio, in certi autoritratti di Rembrandt. Il protagonista di questi racconti è nato in una famiglia ebraica, come me, in una regione cosmopolita com’era la Bucovina della mia infanzia. Ma anche su di lui si abbatte la catastrofe, che lo strappa dal nido domestico e lo precipita nell’incubo dei campi di concentramento, questo buco nero della Storia. La guerra finisce, in Romania si insedia il comunismo o, meglio, la versione bizantina del socialismo reale. Una magnifica fiaba, che non può non incantare un ragazzo come quello che io sono stato. Cresciuti senza fiabe, abbiamo creduto a questa dell’uguaglianza universale. Il mio personaggio, però, non è del tutto stupido, si accorge presto di quanto la realtà si discosti dall’ideale. In un regime che respinge ogni critica, l’unica via di salvezza è rappresentata dai libri, dalla letteratura, dalla scrittura».E dall’esilio, se vogliamo continuare a seguire le analogie fra Manea e il suo personaggio: nel 1986, all’età di cinquant’anni, l’autore lascia la Romania e, dopo un periodo in Germania, si stabilisce negli Stati Uniti. «È capitato in una stagione della vita in cui si è ormai refrattari ai cambiamenti – ricorda – ma, in ogni caso, è stata un’occasione per spingere lo sguardo fuori da me, fuori dal mondo che conoscevo. Il mio primo esilio è stato causato dal nazismo, il secondo dal comunismo. C’è una simmetria, in questo, forse anche un’analogia. Ma respingo con forza l’ipotesi di un’identità fra i due regimi: il fatto che abbiano provocato conseguenze simili non può cancellare il fatto che partissero da premesse opposte». Negli Usa da oltre vent’anni, Manea confessa di non sentirsi affatto a suo agio sull’altra sponda dell’Atlantico: «Vivo in una società libera, ma troppe volte questa libertà si riduce al libero mercato, a una mentalità mercantile che premia la volgarità e l’ignoranza, riservando pochissima attenzione ai valori della cultura e della spiritualità. Una certa dose di delusione, del resto, è connaturata all’esperienza dell’esilio. A dispetto di ogni altra considerazione, continuo a pensare che in questo spaesamento si nasconda sempre la possibilità di un nuovo inizio. L’esilio, per me, è un’esperienza pedagogica. Che oggi, peraltro, è sempre più diffusa. Fino a qualche tempo fa mi consideravo un nomade misantropo, rappresentante di una minoranza dell’umanità. Negli ultimi decenni i processi di globalizzazione e migrazione hanno trasformato l’esilio in una condizione assai meno rara rispetto al passato. Diciamo che oggi se la possono permettere molte più persone, per quanto la decisione di partire non sia sempre del tutto spontanea».Manea scrive sempre in romeno («La lingua è la mia unica ricchezza, il mio unico rifugio») e, allo stesso modo, segue con interesse le vicende del Vecchio Continente: «L’Europa è molto più di una meta turistica, da raccomandare per i suoi musei e le sue località termali – scherza –. Per me è il luogo in cui è nata la civiltà, una civiltà che si identifica ancora nel dialogo fra Atene, Roma e Gerusalemme. So bene che neppure in Europa la situazione è facile, ma resto persuaso che non sia affatto disperata. Un paio di anni fa, a Bruxelles, ho partecipato a un convegno in cui tutti parlavano della necessità di “salvare l’Europa”. Ci ho messo un po’ a capire che, in effetti, il tema di cui si dibatteva era l’immigrazione, un argomento che gli europei dovrebbero conoscere bene, visto che un secolo fa erano proprio loro a partire alla volta dell’America o dell’Australia. Capisco la preoccupazione, ma la soluzione l’ha già pensata Napoleone. Un imperatore, non un ideologo comunista. Ed è una soluzione davvero semplice: riconoscere il primato della cittadinanza rispetto a ogni altro elemento identitario. Chi arriva in un Paese ne diventa cittadino, ottenendo i relativi diritti e accettando i relativi doveri. Gli ebrei, gli armeni, tutti i popoli che hanno affrontato esilio e migrazione si sono sempre comportati in questa maniera. Nessuno ha mai preteso che il Paese in cui si trasferivano si trasformasse in una copia di quello che avevano abbandonato».Il riferimento è alle stragi di Parigi, ma lo scrittore vuole evitare qualsiasi equivoco di natura religiosa: «Ne faccio una questione di logica, non di fede – ribadisce –. Si lascia la propria terra perché si va in cerca di qualcosa di meglio. Se si è convinti che non ci sia nulla di meglio da cercare, non è il caso di lasciare la propria terra. È sempre stato così, ci si è sempre assimilati alla cultura del Paese in cui ci si trasferiva. Da un decennio a questa parte si è imposto questo ragionamento assurdo...». E il ritorno dell’antisemitismo? «Lo ritengo un segno di stupidità – risponde con prontezza Manea –. Tutti gli altri pregiudizi sono stati superati, solo questo non muore mai. Per me è un fatto imperdonabile, specie quando l’antisemitismo pretende di mascherarsi sotto una patina cristiana. Gesù era ebreo, il cristianesimo nasce dall’ebraismo, alle origini Pietro e Paolo si confrontano proprio su questa continuità. Non sono una persona religiosa, ma non penso che ci sia un qualche merito in questo. Al contrario, sono convinto che il nostro mondo abbia più che mai bisogno di maggior trascendenza. Se torno all’educazione ricevuta in famiglia, mi accorgo che per me l’ebraismo coincide con il rifiuto degli idoli. Di ogni idolo, non importa se si tratta di un ideale, di un condottiero o di una merce. Anche nel nostro mondo globalizzato, l’idolatria è la radice di ogni altro peccato».