martedì 9 luglio 2024
Riconosciuto a livello internazionale come uno dei più importanti interpreti della sei corde tra rock e jazz, il giovane musicista di Casteldaccia parla del suo tour estivo in Italia
Il chitarrista Matteo Mancuso

Il chitarrista Matteo Mancuso - Paolo Terlizzi/Sixhats Studio

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Il paragone può far stridere i denti a qualcuno, ma è per capirsi al volo: Matteo Mancuso è il Sinner della chitarra elettrica. 22 anni Jannik, 27 Matteo. Italiani entrambi, uno altoatesino, l’altro palermitano, di Casteldaccia per la precisione. Numero 1 nel tennis mondiale stando alla classifica Atp il primo, numero 1 virtuale il secondo per i riconoscimenti arrivati dai massimi esponenti della sei corde rock e jazz negli ultimi anni. «The World’s Greatest Guitarist?» ha intitolato l’intervista a Matteo Mancuso Rick Beato, noto critico musicale statunitense, il cui esclusivo salotto su YouTube è già una consacrazione per chi vi entra. Ma la chitarra non è uno sport, è arte. Gli endorsement contano fino a un certo punto. Conta l’album strumentale di Mancuso, The Journey, uscito l’anno scorso e che ha convinto al di là delle fenomenali capacità tecniche dell’autore. Contano i concerti che ha inanellato in questi anni e che gli hanno guadagnato un consenso reale sempre più vasto. Concerti che sono ripresi all’inizio di giugno con un tour che ha visto alcune tappe all’estero e che da domani vede una fitta serie di date in Italia, a partire dal Milano, Teatro Dal Verme (l’elenco è sul sito matteomancuso. net). Un tour con Riccardo Oliva al basso e Gianluca Pellerito alla batteria.

Mancuso, come sono andati i primi appuntamenti di quest’estate?

«Bene, il pubblico era in piedi, cosa che preferisco perché c’è più energia. Noi facciamo anche molti festival jazz dove la gente è seduta. Quando è in piedi è un’altra cosa. E quelli di quest’estate sono molto rock come concerti».

Che scaletta proponete?

«Il tema principale è l’album The Journey, più tributi ad alcuni dei miei artisti preferiti, come Jaco Pastorius e Allan Holdsworth, quest’ultimo è uno dei chitarristi che più mi hanno influenzato».

Allan Holdsworth che è tanto venerato dai chitarristi quanto risulta spesso indecifrabile a chi non è dentro allo strumento...

« Io l’ho incontrato musicalmente quando avevo più o meno 14 anni, ma era troppo avanzato per me, non mi era piaciuto. Ho cominciato con il rock, quindi ascoltavo Jimi Hendrix, Angus Young, Ritchie Blackmore. Quando mi sono avvicinato al jazz, alla fusion e ho riascoltato Allan ho capito tantissime cose. È sempre stato avanti anni luce».

Ascoltandola viene in mente un altro nome della chitarra fusion, Shawn Lane, che ha unito una grande sensibilità a un virtuosismo leggendario.

«Shawn Lane è stato veramente una forza della natura, ci sono cose sue che restano tecnicamente inapprocciabili. È morto troppo presto, ci siamo persi la sua possibile evoluzione dopo un album come Powers of Ten e i lavori con Jonas Hellborg».

In questi anni lei ha conosciuto personalmente molti numi dell’olimpo della chitarra. C’è qualcuno che le ha lasciato un’impressione particolarmente significativa dal punto di vista umano?

«Tommy Emmanuel. Il suo concerto a Palermo nel marzo dello scorso anno è stato un’esperienza che mi porto ancora dentro, una delle più belle della mia vita. Mi aveva scritto qualche giorno prima per invitarmi a suonare un pezzo con lui, sul palco. Ci siamo visti per il soundcheck al pomeriggio, abbiamo cenato insieme, abbiamo parlato tanto. Mi hanno colpito la sua gentilezza, la sua positività, la sua amabilità con i fan».

Lei avverte il peso del suo successo?

« Avverto una pressione che può essere difficile da gestire in alcuni momenti ma mi aiuta anche a migliorare certi aspetti della mia vita. L’attenzione che ricevo è una spinta a studiare di più, a concentrarmi di più su alcune cose. Adesso sono più produttivo, prima ero più procrastinatore».

Sembra molto legato alla sua terra: gira il mondo ma fa base ancora a Casteldaccia. Non si è trasferito neanche a Roma o Milano.

«La mia generazione, fortunatamente, non ha più bisogno di stare in una grande città per poter farsi conoscere o accedere a collaborazioni con vari musicisti. Io ho avuto la fortuna di poter fare praticamente tutto da Casteldaccia. Grazie a internet. Senza internet sarei già da qualche altra parte. Però stare in una community reale di musicisti, di creativi, starci a contatto non solo online, è di grande importanza. Ne ho parlato una volta con Al Di Meola, di come i musicisti oggi vivano più isolati rispetto a prima e come questo non aiuti. Probabilmente io sono l’unico chitarrista della mia età nel mio paese, per dire».

Però un commento a un suo video su YouTube dice grosso modo: «Ci sono così tanti musicisti in Sicilia che prima o poi doveva uscirne uno così, capace di esplodere». Tra l’altro lei è in tour con altri due strumentisti originari di Palermo…

«Sì in Sicilia i musicisti ci sono, a partire da Palermo, che è piena di musicisti bravi anche se propongono poco. Tra noi siciliani si scherza sul fatto che il catanese è più intraprendente del palermitano. E tra noi chitarristi si dice che il palermitano sa 200 tipi di accordi e non ha neanche un progetto, mentre il catanese sa 3 accordi ma ha 200 progetti… Io sono molto legato alla mia terra, la amo, però quest’anno sarà l’ultimo con base in Sicilia. Perché qui ho tutte le comodità, ho anche uno studio di registrazione...»

…con un nome molto siculo, Fico d’India Studios.

«Esatto, un’idea di mio papà in realtà. Quindi, dicevo, stare qui per me è vivere in una comfort zone. Posso fare un po’ quello che voglio, gestisco i miei tempi, ecc. Mi manca la community».

Pensa come destinazione a una città in Italia o all’estero?

«Penso a Londra. Ho valutato anche agli Stati Uniti, ma non mi piace molto lo stile di vita americano e comunque vorrei rimanere in Europa. A Londra c’è un giro molto grande musicalmente e con un breve volo d’aereo sono a casa».

Lei ha un padre chitarrista professionista e affermato. Che ruolo attribuisce alla sua famiglia nel suo essere arrivato dove è ora?

«Un ruolo fondamentale. Ho iniziato più o meno quando avevo 10 anni grazie a mio papà, è stato lui ad introdurmi alla chitarra. Io lo vedevo suonare a casa, per curiosità ho cominciato anch’io. Ma tutti in famiglia sanno suonare uno strumento, mia sorella, mio fratello, mia mamma. Mi è sempre sembrata una cosa normale, poi ho capito che non è così usuale e che sono stato fortunato a nascere in un contesto simile».

C’è un elemento religioso nel suo percorso musicale?

«Direi spirituale, non religioso. Io non sono credente, mi sono sempre definito agnostico. Con spirituale intendo una sensazione che ho quando suono, quando compongo, che non si può spiegare in numeri o in parole. È una sensazione che ho provato fin da piccolo, soprattutto quando facevo musica con altri. Ed è il motivo per cui ho scelto proprio la chitarra elettrica rispetto alla chitarra classica. Con la classica suoni quasi sempre da solo, con l’elettrica hai l’opportunità di suonare con una sezione ritmica. E questa sensazione, facendo musica con altre persone, l’ho sempre vista come qualcosa di spirituale. È un po’ come se fosse una cura per l’anima. Suonare lo trovo terapeutico, a prescindere dal talento che hai».

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