Per un atleta, negli anni totalitari e sanguinosi che vanno dal 1942 al ’45, «stare dalla parte giusta» non sempre significava correre nella propria corsia su una pista d’atletica, come faceva Manlio Gelsomini, scendere in campo nel ruolo di eroe della domenica, come i calciatori Bruno Neri e Dino Fiorini, oppure combattere sul ring, come il pugile Michele Bonaglia.Manlio Gelsomini, classe 1907, giovanissimo aderì al Partito nazionale fascista, che ricambiò nominandolo capitano del 79° Battaglione “Camicie nere”. Il velocista dell’Associazione Sportiva Roma, venne presto convocato nella Nazionale di atletica e nel 1928, a Genova, salì sul podio da campione italiano dei 100 metri.I giornali glorificavano il camerata che «ha fatto i 100 metri in 11 secondi netti. Ecco un atleta che mantiene le promesse e con la volontà può fare ancora meglio...».Volenteroso ed eclettico, di ritorno da un viaggio a Londra, si gettò anche nella mischia su un campo di rugby e nel frattempo andava in meta alla facoltà di Medicina, laureandosi brillantemente in Chirurgia.Il dottor Gelsomini, sarà medico apprezzato al Policlinico Umberto I, e poi sanitario di “complemento” nell’esercito durante la seconda guerra mondiale. Ma forse, già alla promulgazione delle leggi razziali del ’38 (era cresciuto con l’amico ebreo dottor Giorgio Piperno) iniziò a rifiutare la follia ideologica del fascismo, diventando l’eroe esemplare dell’atletica raccontato da Valerio Piccioni in
Manlio Gelsomini. Campione partigiano (edizioni Gruppo Abele).Dopo l’8 settembre del ’43, di sicuro saltò l’ostacolo del nazifascismo, ed entrò nella Resistenza. Il regime a quel punto lo ripudiò depennandolo dalla “Guida Monaci”, in cui il suo nome non figurerà più tra i medici-chirurghi. Era entrato in clandestinità, diventando “Ruggiero Fiamma”. Così lo ribattezzarono i partigiani dei nuclei di resistenza bande “Monte Stella”. E sotto quell’identità, complice una spiata assassina, finirà nelle mani dei tedeschi che, dopo 76 giorni di prigionia, il 24 marzo del 1944, uccidendolo fecero di Gelsomini uno dei 335 martiri dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Sua madre, Sparta, per ricordarne la grande passione sportiva, il 17 settembre di quello stesso anno diede il via al memorial ciclistico Coppa Gelsomini che nella seconda edizione (maggio ’45) ebbe tra gli iscritti alla corsa Gino Bartali e Fausto Coppi. I due campionissimi erano scesi fino a Montesacro per rendere omaggio all’atleta caduto come «i martiri del nostro primo Risorgimento».Con lo stesso spirito, Massimo Novelli nel 2002 ha strappato dall’oblio
Bruno Neri. Il calciatore partigiano (Graphot). Il più "intellettuale" dei calciatori degli anni 30-40, nacque a Faenza (nel 1910) e con la squadra della sua città debuttò in serie B a 16 anni. Una vita da mediano atipico, Bruno Neri amava l’arte e la letteratura e dopo le superiori si era iscritto all’Istituto di Studi Orientali di Napoli. Perciò non stupisce se nel ’29, passato alla Fiorentina – primo romagnolo in viola per la sontuosa cifra di 10mila lire –, dopo gli allenamenti e le partite domenicali, il suo ritrovo preferito era il Caffè delle Giubbe Rosse, dove incontrava Montale, Landolfi e sedeva ai tavoli con Carlo Bo e il poeta tifoso del Modena Antonio Delfini. Probabilmente nessuna di quelle eminenze grigie della cultura italiana videro il "gestaccio" dell’antifascista Neri che, nel 1931, unico della Fiorentina, il giorno dell’inaugurazione dello stadio Giovanni Berta (giovane squadrista ucciso nel 1921 dai comunisti) si rifiutò di fare il saluto romano. Il tenente Vittorio Pozzo, non tenne conto dell’episodio e lo convocò in Nazionale per tre volte: la prima nella partita contro la Svizzera (4-2), valida per la Coppa Internazionale 1936-’38. Dopo la parentesi alla Lucchese, all’apice della carriera nel Torino guidato dal mister ungherese Erno Egri Erbstein (ebreo scampato al lager nazista e morto nella sciagura aerea di Superga, 4 maggio 1949), a trent’anni Bruno Neri si ritirò per tornare a Faenza ad allenare quei giovani ai quali il calciatore filosofo insegnava: «La palla si gioca quando non si ha». Ma soprattutto era tornato per partecipare attivamente al piano di lotta contro i nazifascisti, architettato dal cugino Virgilio Neri, imprenditore a Milano e uomo vicino a La Pira e don Sturzo. Fu proprior Virgilio che indusse Bruno ad entrare nella Resistenza. Vicecomandante del Battaglione Ravenna, divenne il "Berni", ma il 7 maggio del ’44, era ancora il calciatore Bruno Neri quando, a sorpresa, scese di nuovo in campo in un Bologna-Faenza 3-1.Quello, fu il suo addio al calcio, poco prima di congedarsi per sempre anche dalla vita. Il 10 luglio assieme al compagno partigiano "Nico" (al secolo scorso, Vittorio Bellenghi), nei pressi dell’eremo di Gamogna, rimasero uccisi in un conflitto a fuoco con i soldati tedeschi.Un acerrimo avversario in campo di Bruno Neri, fu l’esuberante Dino Fiorini, terzino del Bologna anni ’30, quello «che tremare il mondo fa». Il suo impegno politico lo fece giocare dalla parte opposta a Neri, ma la sorte anche per lui fu la stessa: nel settembre del ’44, a Monterenzio, il milite scelto della Guardia nazionale repubblicana morì in uno scontro con i partigiani. Il corpo del 29enne Fiorini non fu mai ritrovato e ancora oggi non c’è una tomba dove i suoi cari lo possono piangere.Non ha mai avuto una spiegazione chiara ed univoca neppure la morte del pugile Michele Bonaglia. Lo “Spaccapietre” di Druento (alto Piemonte), il 6 gennaio 1928, sul ring di Berlino, bombardato dai pugni dell’“Ulano Nero”, il campione europeo dei mediomassimi, Max Schmeling, resistette appena 45 secondi prima di andare ko. Ma fino all’ultimo round della sua esistenza, “Michelone” non smise di prestare forza fisica e fede politica al fascismo Lo accusarono di essere il «torturatore senza pietà» dei partigiani, e questi il, 2 marzo del ’44, si vendicarono giustiziandolo. «Rantola, il prete assolve. Tra i pugnali/ E gli inni e le vendette i funerali. / Noi qui la fine vi abbiamo raccontato / Di un campione dal popolo esaltato/ Che una Sera di marzo incontrò il Fato/ Sulla piazza di Druent», così Guido Ceronetti ricorda il pugile Bonaglia ne “Le ballate dell’angelo ferito”. Ma la sintesi di queste quattro storie di sport e di chi ha creduto fino alla fine di stare e di lottare dalla parte giusta, sta forse tutta nelle parole di Nuto Revelli: «Oggi è facile gridare. Ieri dovevamo gridare, ieri, prima del massacro inutile».