«Latina lingua»: era così intitolata la lettera apostolica del 2012 di Benedetto XVI che istituiva
motu proprio la Pontificia Academia Latinitatis con intenzioni di incremento e rafforzamento culturale e spirituale: la fede del credente non poteva che riuscire rafforzata dalla constatazione del legame con un grande passato ed anche sotto questo profilo l’iniziativa del Pontefice era stata generalmente apprezzata e seguita, ad esempio, dai pregevoli scritti in lingua latina su
Avvenire. Resta tuttavia il raffronto con l’inglese, il quale, come lingua moderna, attuale e di grande rilevanza pratica, spesso viene contrapposto al latino che, pur riconosciuto di grande rilievo culturale, sarebbe lingua «morta». Se ne è parlato, sempre su
Avvenire, domenica scorsa annunciando un convegno che il Pontificium Institutum Altioris Latinitatis (Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche) dell’Università Pontificia Salesiana organizza per domani e dopo a Roma. Devono farsi però due considerazioni: a differenza dell’italiano o dello spagnolo di derivazione prevalentemente latina, oppure del tedesco e dello svedese di derivazione prevalentemente germanica, l’inglese può considerarsi lingua mista o di fusione, con un quasi paritetico apporto di vocaboli di origine germanica e latina. Già così vi sarebbe buon motivo per uno studio più o meno approfondito del latino (come per l’inglese, l’importanza pratica del latino è tale che è preferibile una conoscenza modesta a nessuna conoscenza), che possa consentire un ingresso nell’inglese dalla porta principale anche ai «poveri» latini, inclusi coloro che hanno solamente appreso in latino, in modo un po’ attento grammaticalmente, qualche orazione cattolica (e inclusi anche molti diligenti cinesi, dopo che il diritto romano è stato assunto a base del loro sistema giuridico!). La seconda considerazione che induce a ritenere opportuno un certo studio del latino è che, a differenza degli italiani, gli anglosassoni hanno sviluppato e affiancato alla loro lingua, come accennato di derivazione mista, il latino quale lingua base in molti rami del sapere, ad esempio nel settore giuridico. Conferma di ciò, anche nel settore della chimica, ci viene da un diffuso dizionario di inglese/italiano, il Ragazzini, il quale in una recente edizione propone un diligente elenco inglese di 109 importanti elementi chimici ai quali affianca le traduzioni in italiano: in tale elenco inglese circa il 70% degli elementi sono però denominati in latino (generalmente moderno). Per i medesimi elementi, nel francese e nel tedesco, la predetta percentuale in latino scende all’incirca al 50%, le restanti percentuali, del 30% per l’inglese e del 50% per le altre due citate lingue, sono generalmente formate da vocaboli, spesso di origine latina o greca, delle tre rispettive lingue nazionali. Gli italiani e gli spagnoli indicano di solito nelle loro lingue nazionali moderne gli elementi di cui al citato elenco, salvo utilizzare all’occorrenza il latino negli studi o nei convegni internazionali. V’è da chiedersi se, nel proporre in alcune Università italiane il conseguimento di lauree scientifiche in inglese, si siano fatte, almeno incidentalmente, le suesposte elementari considerazioni e le altre più volte formulate su questo giornale; a maggior ragione v’è da chiedersi come mai recentemente, ancora imperante un governo di centro destra che avrebbe forse dovuto essere un po’ attento a certe utili tradizioni, si sia attenuato nel liceo scientifico la studio del latino già modesto, rendendolo facoltativo.