Sin dal Bruto minore s’insinua infatti, nella contemplazione leopardiana, un seme più gravoso e doloroso della stessa vanitas: «abbietta parte / Siam delle cose»; la infelicità dell’uomo è più misera della stessa mortale finitudine del creato perché gli è ascritta – dai costumi, dalle religioni, o da ultimo dalla sua stessa consapevolezza di abiezione – a colpa. Soccorre, a riprova, una lunga meditazione dello Zibaldone del 3 settembre 1823, nella quale il Leopardi richiama la vicenda semantica di «sciagurato , disgraziato , misero, miserabile [...], tapino»: «Un uomo solito a échouer nelle sue intraprese, era senza fallo in ira agli dei. […]. Si fuggiva quindi l’infelice, come il colpevole; se gli negava ogni soccorso e compassione, temendo di farsi complice in questo modo della colpa, per poi divenire partecipe della pena. [...] Gli amici e la moglie di Giobbe lo stimarono uno scellerato, com’ei lo videro percosso da tante disgrazie». L’uomo è più abietto, «precipitato più in basso», delle cose stesse: la «storia di un’anima» – tale volle definirla il Leopardi – è il cammino, sino alla Ginestra e ai Pensieri, di questa personale e universale kenosis, com’egli delinea in una lettera del marzo 1829 a Pietro Colletta: «–Seguita la notizia de’ miei castelli in aria. Storia di un’anima. Romanzo che avrebbe poche avventure estrinseche e queste sarebbero delle più ordinarie: ma racconterebbe le vicende interne di un animo nato nobile e tenero, dal tempo delle sue prime ricordanze fino alla morte. Caratteri morali. Paradossi». È una traccia che riaffiorerà nell’ultimo Leopardi, in quei Pensieri nei quali il meditare spesso s’introduce attraverso il ricorso al paradosso («Ha sembianza del paradosso, ma coll’esperienza della vita si conosce essere verissimo», XCVII); quando al proprio vorrà associare il più alto paradosso della storia umana, il rovesciamento radicale dei valori del mondo, la sola legittimazione dell’abiezione che la storia ci abbia offerto: «Gesù Cristo fu il primo che distintamente additò agli uomini quel lodatore e precettore di tutte le virtù finte, detrattore e persecutore di tutte le vere ; [...] derisore d’ogni sentimento alto, se non lo crede falso, d’ogni affetto dolce, se lo crede intimo; quello schiavo dei forti, tiranno dei deboli, odiatore degl’infelici; il quale esso Gesù Cristo dinotò col nome di mondo, che gli dura in tutte le lingue colte insino al presente». «Questa idea generale, che è di tanta verità», soggiungeva il Leopardi, tocca «l’uomo che chiamiamo civile»: sotto di lui, nell’abiezione e nella lava, reclinato «il tuo capo innocente», la ginestra – anch’essa figura «non renitente» – piega e si libra «sulla mesta landa / In purissimo azzurro» (La ginestra).
La novità e la modernità della poesia del Leopardi, la sua viva presenza anche oggi, è proprio nell’ aver egli aperto lo spazio poetico all’infinito del desiderio che, attraverso la negazione, conferma l’insufficienza di qualsiasi oggetto o parvenza, per lasciare intatti -nella mente e nella memoria- "Moti soavi, immagini, / Palpiti, error beato" (Il Risorgimento); così da isolare tutto integro, e tutto puro, il posare del creato, come testimonia la più classica delle riscritture dal Petrarca, il primo verso della Sera del dì di festa: "Dolce e chiara è la notte e senza vento", aura sospesa in impalpabile preludio.E così il Leopardi vorrà congedarsi dalla propria opera, in una lettera, a Carlo Lebreton a Parigi del giugno 1836, che accompagna l’uscita dallo Starita delle Opere : "malgré le titre magnifique d’opere que mon libraire a cru devoir donner à son recueil, je n’ai jamais fait d’ouvrage, j’ai fait seulement des essais en comptant toujours préluder"; come se i Canti non fossero stati, essi stessi, che infinito preludio e rattenuta eco di congedo: "L’estremo albor della fuggente luce" (Il tramonto della luna), "Un canto che s’udia per li sentieri / Lontanando morire a poco a poco" (La sera del dì di festa).