L’arrivo in Italia non è un approdo, è uno scontro. Il barcone su cui ha viaggiato per un giorno intero con duecento africani come lui, si schianta sulla banchina e insieme a molti altri Munir vola nell’acqua nera e vischiosa del porto. Corpi si sbracciano, teste galleggiano a pelo, si sentono urli, lamenti, fasci di luce bianca e azzurrognola attraversano il buio. Munir nuota furiosamente, si aggrappa a una corda, viene ripescato. All’asciutto, perde i sensi. Si sveglia al mattino in un re- cinto. Mille e una persona, uomini soprattutto, con qualche donna e ragazzi della sua età, si accalcano contro un cancello. Li vede dalla finestra di fronte alla branda dove è allungato, una delle tante in uno stanzone che puzza di umanità. Un odore che gli dà la nausea, e lo rincuora. Chi lo avrà aiutato? Quell’uomo con la pelle giallo epatite che quattro brande più in là si accende una sigaretta? Quella donna con la faccia schiacciata, coperta di veli blu da carovaniera? Si solleva con fatica, si mette in piedi e massaggiandosi la testa barcolla verso la porta che apre sul cortile. Non mangia da quasi due giorni. L’impatto con il sole già forte e con l’aria umida e snervante gli oscura per un istante la vista e lo fa vacillare. Ma questa volta non sviene. Si trascina al cancello dove si mescolano voci, e decine di lingue diverse. Come uscirà da lì? Corri, gli ha detto sua madre, corri senza fermarti come sanno fare gli africani, hai deciso di andare da tuo padre e allora svelto, trovalo, scopri l’ospeda- le dov’è ricoverato… Del ricovero hanno saputo da un conoscente, rispedito a Gabès con il foglio di via. Da allora sono passati sette mesi, e nemmeno una notizia, e molti, in quell’angolo ai margini della città dove suo padre aveva più amici che nemici, si domandano, e non lo fanno con tutti, cosa gli sia capitato. Lavorava alla pompa della benzina, suo padre, prima di partire. Come uscirà da lì? A metà mattina un poliziotto in maniche di camicia, bagnato di sudore, finalmente li libe- ra dal recinto, non disperdetevi, grida per superare le voci, restate in gruppo, però Munir non può rimanere con gli altri, non ha ancora sedici anni, anche se sembra un uomo, e ai controlli lo rimanderebbero a casa. Invece lui deve correre, volare nella direzione opposta con le sue gambe come leve, andare da suo padre. Un momento di distrazione delle guardie e Munir è già alla spiaggia, mentre lo scirocco sta trasformando il mare in una distesa di schiume. Corri, dicono gli occhi incavati di sua madre, gli sguardi vuoti dei suoi fratelli più piccoli, e il resto per lui è come un sogno, o un incubo, pieno di pericoli, trappole, facce come maschere, sorrisi di cui ci si può fidare o forse no. Per tre giorni e tre notti Munir si muove verso nord su barche e treni, per la via più diretta, con il cuore in gola, finché intorno a Roma, dove un camion lo ha lasciato, crolla sotto un albero. Non vede neppure la campagna deserta, le farfalle silenziose. Si sdraia all’ombra, sta per addormentarsi, non posso, si ripete, ma le palpebre lottano con il sonno, ormai gli occhi sono delle fessure, e non si stupisce di scorgere in lontananza un elefante, che avanza dondolandosi verso di lui sul viottolo tra i campi. Munir si sforza di aprire gli occhi, ma l’elefante non sparisce. Si appoggia al tronco e con gli occhi ben sbarrati guarda meglio. Trattiene il fiato: è un elefante vero. Si sveglia completamente. Munir non ha pratica grande di elefanti, ma che sia molto vecchio lo capirebbe chiunque. Ha le zanne annerite e consumate, la pancia divisa in migliaia di rughe e le orecchie tutte slabbrate. Ogni tanto le agita e mosche e moscerini si sollevano dal cranio potente. Con la proboscide regge un bastone ai cui lati pendono due secchi d’acqua. Si osservano per un po’, poi il pachiderma si stufa, si gira, sbatte la stretta coda e con il suo passo pesante, senza far cadere una goccia dai secchi, si allontana sul viottolo. Cosa devo fare?, pensa Munir, e intanto si incammina dietro il bestione. Prima o poi dovrà pur fermarsi, si dice seguendolo a distanza di sicurezza. D’un tratto, a un bivio, l’elefante abbandona il viottolo e si infila in un sentiero tra canne e cespugli, e alla fine, tra canne più alte bruciate dal sole, appare una capanna. L’elefante, come un servitore diligente, posa i secchi, dà un paio di pestoni che fanno tremare il terreno e dalla capanna esce un vecchio. Ha un lungo abito di tela chiara, molto cencioso, una barba che gli arriva all’ombelico e una benda su un occhio. Vedendo il ragazzo, piega la testa per fargli un saluto. Munir lo imita. «Africano – gli dice il vecchio – posso darti un po’ del mio pane?» Munir fa segno di sì e l’uomo gli dà del pane che tiene in una tasca. «Mi riconosci?», gli domanda, e si siede su un tronco, poi invita il ragazzo a fare altrettanto. Munir addenta il pane, stranamente fresco, e fa segno di no. «Annibale, il mio nome, ti dice qualcosa? ». Ormai nulla può stupire Munir. «Certo – risponde trionfante – sono tunisino». Il vecchio sospira. «Guarda come sono ridotto, solo, senza armi, senza esercito, abbandonato anche dalla speranza. Mi sono illuso per secoli, prima o poi arriveranno i rinforzi da Cartagine, mi dicevo, e finalmente potrò conquistare Roma. Ho fatto tanta strada per arrivare qui, ho messo in moto una macchina grandiosa, ho attraversato le Alpi con quaranta elefanti per colpire la fantasia e far capire di cosa ero capace. Con le buone e con le cattive, le tribù della pianura, che odiavano i romani, si sono alleate con me. Il sud dell’Italia, tra lotte e saccheggi, mi ha riconosciuto re, per anni sono quasi diventato italiano, lo sai che dei musicisti pugliesi dicono in una canzone di essere figli di Annibale? Sconfisse i romani, cantano, restò in Italia da padrone per quindici o vent’anni, ecco perché molti italiani hanno la pelle scura, un po’ del sangue di Annibale è rimasto a tutti quanti nelle vene… Ma Roma mi ha spaventato, ho perso tempo credendo di dover agire con prudenza, rispettando una città che comunque, prima o dopo… e guarda come sono finito. Mi chiamavano perfido, come hanno poi fatto con i parenti stretti dei cartaginesi, gli ebrei, e come continuano a fare con gli africani. Proprio non vogliono capirlo che i tempi di Annibale non ci sono più, che gli africani, o almeno la maggior parte di voi, sta facendo un’invasione pacifica, mischiandosi tra persone che di africano hanno più di quanto immaginano. Tu, ad esempio, perché sei qui?» «Per raggiungere mio padre», risponde Munir, con una voce improvvisamente fonda come quella del vecchio che gli ha appena parlato. «Ti faccio una proposta», sorride il vecchio alzandosi. Adesso sembra davvero un re. «Sorprendi tutti, arriva da tuo padre in groppa al mio decrepito ma sempre fidato elefante, e chissà. Non sono i piccoli gesti che a volte cambiano la storia? E durante la strada, te lo dice una volpe che qualcosa forse ha imparato, mettiti addosso questa. L’ho trovata pochi giorni fa in mezzo ai cespugli». Annibale la tende al ragazzo, poi gli volta le spalle e grande e lento rientra nella capanna. Munir la guarda. È una maglietta di cotone, sul petto ha una scritta: ' I’m muslim. Don’t panic , Sono musulmano. Niente panico'. A cavalcioni sul collo dell’elefante, con le insegne della sua pacifica corsa e una fiducia che prima non aveva, Munir imbocca il viottolo.