martedì 27 ottobre 2009
Faceva il giornalista, è andato in India come turista 5 anni fa e poi ha lasciato tutto per fondare una Ong che aiuta i bambini nati nella bidonville più grande dell’Asia Parla lo spagnolo Sanllorente, autore de «I sorrisi di Mumbai» che esce ora in Italia.
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Pooja era una piccola mendican­te di Dharavi, lo slum più gran­de di Mumbai e dell’intera Asia. Lakshmi, nata con una malformazio­ne alla mano a causa dei materiali tos­sici usati per costruire le baracche, so­pravviveva raccogliendo l’immondizia nelle discariche della metropoli. La pic­colissima Priyanka abitava a Kamathi­pura, il quartiere della prostituzione nel centro di Mumbai, dove lavorano baby-lucciole che possono avere sol­tanto 7 anni. E poi ancora Kunal, leb­broso tredicenne abbandonato dai ge­nitori, Noor, a cui qualcuno aveva am­putato le gambe perché facesse più pe­na quando mendicava, e la minusco­la Kavita, neonata soffocata dal padre perché «se avesse continuato a vivere, la famiglia avrebbe dovuto pagare una dote». Furono i visi di Pooja, Noor e di tanti altri come loro a restare stampati ne­gli occhi di Jaume Sanllorente, anche quando il giovane giornalista spagno­lo tornò a casa dalla vacanza in India, organizzata per caso 5 anni fa. Quella vacanza avrebbe cambiato per sempre la vita di Jaume, trentenne spensiera­to, fino ad allora soddisfatto della sua vita divisa tra il lavoro e la movida di Barcellona. «Ma lo ero veramente o lo credevo e basta? In quel viaggio ogni cosa, ogni gesto e ogni luogo mi spin­gevano a pormi sulla mia esistenza del­le domande che non mi ero mai posto prima», scrive Sanllorente nel suo I sor­risi di Mumbai (pp. 250, euro 18), che esce domani per Rizzoli con prefazio­ne di Dominique Lapierre (la pubbli­chiamo in questa pagina). Il libro è il racconto di una svolta: la scelta di prendersi carico dei bimbi di un orfanotrofio a rischio di chiusura, la decisione di fondare un’organizza­zione per gestire il progetto, e infine il grande salto: trasferirsi in India per mettere tutta la propria vita a servizio delle piccole vittime della miseria, dell’i­gnoranza, dello sfruttamento. «Il fat­to è che avevo deci­so di salvare quaran­ta bambini bisogno­si – racconta oggi Sanllorente –, ma poi giorno per gior­no cominciai a in­contrare il quaran­tunesimo, il quaran­taduesimo, il qua­rantatreesimo… Alla fine, la scelta mi sembrò naturale». Cinque anni dopo, la Ong «Sonrisas de Bombay» offre u­na casa, istruzione e un futuro di spe­ranza a oltre cinquemila persone dei quartieri poveri di Mumbai. Signor Sanllorente, ma come ha fatto? «Sono convinto che i più grandi cam­biamenti in questo mondo, in tutti i settori, avvengano grazie alle singole persone. Noi, in quanto esseri umani, siamo i responsabili del mondo in cui viviamo, e noi abbiamo il potere di cambiare le cose che non ci piacciono in esso. Le persone che ho incontrato in India hanno prodotto i cambiamenti che oggi hanno il nome di 'Sonrisas de Bombay'». Come è stato possibile innamorarsi dell’India, nonostante le tante con­traddizioni che ancora oggi dice di non comprendere? «In realtà non mi sono mai innamora- to dell’India. La mia relazione con que­sto Paese assomiglia piuttosto a un ma­trimonio combinato: il destino ci ha messi insieme e, a poco a poco, stiamo imparando ad amarci a vicenda. Oggi amo l’India, ma questo sentimento vie­ne dopo anni di sforzi per adattarmi. Anche oggi io non appartengo a que­sto posto, perché sono e sarò sempre un europeo, e tuttavia, visto che ho scelto di vivere qui, rispetto e mi dedi­co alla cultura e alle tradizioni indiane». Nel suo lavoro quotidiano lei si è scon­trato con le tensioni interreligiose. Che cosa ne pensa? «È vero, ci sono tensioni e, in certe re­gioni, perfino violenze di matrice reli­giosa. Ma in tutto il mondo ci sono gruppi estremisti, legati a ogni fede o movimento politico. Qui ci sono an­che milioni di indù che vivono a fian­co a fianco con i musulmani e i cri­stiani, e sono in pace». Lei ha anche sperimentato i pregiu­dizi verso gli intoccabili, i poveri, i leb­brosi: qual è la strada per cambiare? «L’istruzione è l’unica via per rompe­re il ciclo della povertà nel destino di milioni di famiglie. E per fortuna il go­verno indiano comincia ad esserne sempre più consapevole: l’estate scor­sa è stata presentata una proposta di legge che potrebbe portare, nel 2011, all’istruzione obbligatoria e gratuita per tutti i bambini del Paese. Speriamo che accada davvero. Certamente il ruo­lo delle Ong è aiutare il governo a rea­lizzare questi obiettivi. Non possiamo perdere il nostro tempo continuando a lamentarci dei governi». Che cosa pensa del volontariato in­ternazionale? Voi non l’incoraggiate. «Penso che la nostra scelta sia quella che ha più senso. Perché portare qual­cuno dall’estero per insegnare inglese, quando Mumbai è piena di professo­ri? Perché portare un architetto stra­niero se qui ce ne sono tantissimi? An­che per la lingua, la cultura, le proce­dure, un intervento locale è molto me­glio che uno stranie­ro». Il suo approccio de­ciso le ha provocato minacce di morte dalla mafia locale: perché non ha pau­ra?«Perché, se morissi, ne sarebbe valsa la pena. La Ong an­drebbe avanti, dan­do speranza a mi­gliaia di poveri e op­portunità di lavoro a centinaia di persone. Se la mia vita finisse qui, lascerei que­sto mondo avendo vissuto in pienez­za e con gioia. Sarei grato alla vita per avermi trattato così bene». Nonostante la scelta che ha fatto, lei di­ce di sentirsi più che mai giornalista: pensa davvero che raccontare alla gente ciò che succede nel mondo pos­sa fare la differenza? Dopotutto, per lei il cambiamento è venuto quando ha visto certe cose con i suoi occhi… «Ma la stampa può aprire gli occhi e i cuori. Ne sono certo. Molte persone hanno tratto ispirazione dalla lettura del mio libro per iniziare a sviluppare i loro progetti e seguire i loro veri so­gni. Questo perché hanno visto che io non sono certo una persona straordi­naria: sono un normale ragazzo di Bar­cellona che un giorno ha pensato che era responsabile di questo mondo. E questo può pensarlo chiunque».
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