Si apre domani la VII edizione di Bergamoscienza, che fino al 18 ottobre porta in città 67 incontri internazionali e 19 mostre a ingresso libero. Tra gli ospiti di quest’anno, i Nobel John Nash e Aaron Ciechanover, l’ideatore di Wikipedia Jimmy Wales. Sabato 17 in Città alta, al Teatro sociale, parlerà Daniel Bosia, architetto e ingegnere strutturale di origine italiana: laureato al Politecnico di Torino, da più di vent’anni vive tra Londra e gli Stati Uniti e ha preso parte ad alcuni dei progetti più innovativi e anche un po’ bizzarri dell’ultimo decennio. Parlerà di «Matematica e architettura», e in effetti gli edifici progettati da Bosia grazie a software inventati appositamente di numeri devono averne assorbite dosi massicce, cifre anche strane e misteriose come le serie di Fibonacci o le geometrie frattali che stanno proponendo nelle nostre città profili fino a oggi inediti. Bosia è uno sperimentatore, ma di quelli lucidi, razionali, cresciuti professionalmente accanto (se non dentro) al computer. È direttore associato di Arup, una delle società di costruzioni più grandi del mondo, guida da Londra la sua Advanced Geometry Unit. È un uomo «politecnico», ma di nuovo tipo; collabora con i dipartimenti di centri universitari come Yale e Harvard, insegna Organizzazione di Sistemi non-lineari all’Università della Pennsylvania, ficca il naso nella biologia molecolare, nella chimica avanzata, progetta nuovi materiali da costruzione. Tra le sue realizzazioni, il «Ponte di Pedro e Inês» a Coimbra e il Weave Bridge a Philadelphia. Ha collaborato con architetti come Daniel Libeskind per il nuovo World Trade Center di Manhattan e il Royal Ontario Museum; con Toyo Ito al Serpentine Gallery Pavillion di Londra. «Assieme a Cecil Balmond – spiega Bosia – abbiamo fondato un gruppo di ricerca applicata che studia nuovi sistemi geometrici e la loro applicazione in architetture di diversa scala, dal livello urbano a quello degli edifici privati, fino agli oggetti di design. Agu riunisce matematici, programmatori, architetti, ingegneri e questo mix permette di raccogliere un knowhow molto vasto e di tradurlo in proposte progettuali che mirano a rivoluzionare il modo in cui sono state fatte le cose in passato».
Vi state liberando dei concetti base dell’architettura storica? «Non del tutto. Noi utilizziamo ancora rapporti geometrici molto classici e fondamentali come la sezione aurea, che sono stati identificati sin dai tempi dei greci e ancor prima, cerchiamo però di riscoprirli all’interno di un’estetica completamente diversa, contemporanea ».
Quando, dal livello della matematica pura, lei passa a fare i calcoli sulle strutture reali le cose però si complicano, o no? «La geometria è qualcosa che produce effetti a qualsiasi livello. Oggi, ad esempio, siamo in grado di esaminare la struttura molecolare dei materiali da costruzione. La nostra ricerca non vuole essere semplicemente astratta ma anche testata sul piano fisico, e l’aspetto geometrico tocca anche il livello della struttura chimica. Per esempio, con il nostro Dipartimento dei materiali stiamo lavorando per controllare le loro proprietà a livello molecolare: alcuni materiali ormai possono essere quasi 'fabbricati' a seconda delle nostre esigenze. Nelle ali delle farfalle il colore non è solo una tinta aggiunta ma è legato alla struttura dell’insetto. A noi interessa questo aspetto: cercare di influenzare le proprietà di un edificio a partire dalla geometria delle sue strutture più interne».
Vuol dire che cercate di progettare architettura a partire dalle molecole? «Sì, esatto. Oggi, per esempio, i materiali edilizi vengono colorati mescolando sulla loro superficie dei pigmenti, ma sono processi sempre meno 'sostenibili' dal punto di vista ambientale. Un modo molto più 'ecologico', ma anche più interessante è quello di creare colorazioni diverse intervenendo nella struttura molecolare». Lei, però, utilizza anche materiali poveri. «È vero, il Weave Bridge – 'ponte intrecciato' – di Philadelphia ad esempio è fatto di materiali molto semplici, come acciaio e plexiglas. Credo che in alcuni nostri progetti la forma, la nuova espressione architettonica sia già così pregnante da giustificare l’utilizzo di materiali persino poveri. Non vogliamo che i nostri progetti siano realizzabili solo spendendo molto. Abbiamo provato anche il legno: il Padiglione della Serpentine Gallery è fatto con elementi molto semplici, tutti lunghi due metri, e siamo riusciti a creare una 'luce' di 30 metri organizzandoli in reticoli, una tecnica che ci ha permesso anche di semplificare in modo drastico le connessioni e tornare a qualcosa di assolutamente tradizionale: una semplice connessione legno-legno. Questo grazie proprio all’utilizzo sofisticato della geometria, spostandoci però dal sistema cartesiano classico a un 'sistema reciproco' in cui ciascun elemento è sostenuto dal successivo».
Con tutta questa tecnologia, state tornando più vicini alla natura? «La natura non è il nostro punto di partenza, eppure molte delle geometrie che utilizziamo le somigliano, perché sono costruite in base agli stessi processi». L’architetto Daniel Bosia Un’immagine del Royal Ontario Museum costruito dalla Arup con la direzione di Bosia