«L’Europa non può dimenticare che l’Atto Finale di Helsinki ha evitato al mondo intero lo spettro di un confronto militare, ideologico, religioso, sostituendo al conflitto un "modello" per la vita internazionale che è - e lo dico con convinzione - ancora oggi proponibile e valido». Con una lucida analisi a partire dalle stringenti contingenze dettate dai recenti fatti terroristici, il Segretario di Stato Pietro Parolin ha riportato all’attenzione le ragioni di attualità di quel modello di cooperazione e sicurezza scaturito dalla Conferenza paneuropea di Helsinki del 1975 per le contemporanee relazioni internazionali tra gli Stati europei e in questo contesto l’attività diplomatica della Santa Sede nell’impegno per la pace. Nel convegno dal tema "Il governo di un mondo multipolare", svoltosi a Roma presso il collegio universitario Villa Nazareth promosso dalla Fondazione Comunità Domenico Tardini, Parolin ha voluto sottolineare come l’Atto finale della Conferenza sulla sicurezza in Europa, nella quale la Santa Sede partecipò come
full member, e che come dichiarò poi il cardinal Silvestrini ha rappresentato un’esperienza unica nel suo valore, sia stata non una pagina di storia «ma un momento che ha cambiato la storia, in nome di una solida volontà di pace manifestata dai popoli di un’Europa dilatata da Vancouver a Vladivostok». Essa ha espresso una storia che dopo il crollo dei muri ha ridisegnato non solo i confini ma l’
esprit dell’Europa. Un
esprit che ora appare lacerato perché con «l’attacco portato nel cuore di Parigi, purtroppo non diverso da quelli analoghi registrati in altre aree come di recente il Libano, e con il medesimo obiettivo di colpire persone dedite alla loro quotidianità - come ha rilevato il Segretario di Stato - sembra prevalere come sola risposta la volontà di contrapporsi alla forza delle armi con gli stessi mezzi». In un contesto internazionale che sperimenta quotidianamente contrapposizioni, conflitti e guerre di ogni tipo un quadro di fronte al quale la diplomazia, chiamata per antonomasia a realizzare la pace, si confronta con due interrogativi: cosa sta realmente accadendo? Possono ancora operare i tradizionali strumenti offerti dal diritto internazionale? Per la Santa Sede, la cui diplomazia sia a livello bilaterale che multilaterale opera avendo a cuore le sorti dell’intera famiglia umana, il quadro attuale è frutto di tendenze che hanno messo da parte la prevalenza di principi e regole comuni per far spazio ad un ritornante unilateralismo, anche se espresso attraverso decisioni collettive o strumenti dell’integrazione. Un contesto questo che per il Segretario di Stato si è determinato con la violazione dei tre principi fondamentali firmati ad Helsinki, cooperazione, sicurezza, diritti, che sono la strada maestra se non si vuole entrare nella terza guerra mondiale. L’orientamento attuale - fa osservare Parolin avendo come riferimento il modello di Helsinki - appare una strada senza uscita e forse anche difficile da percorrere «perché potrà portare ad una stabilità circoscritta, ad una "pace a pezzi", che non basta». Ed è significativo come Parolin opponga alla "guerra a pezzi" l’operare per una pace che non può essere essere ridotta a pezzi ma perché la pace può essere solo globale. «La pace è un bene superiore, necessariamente frutto di quella unità tra le nazioni capace di andare oltre i singoli spazi sovrani e la forza che da questi può provenire. Questa linea trova oggi il suo instancabile ispiratore in Papa Francesco quando dice che "l’unità prevale sul conflitto" e di conseguenza un’azione diplomatica coerente non può limitarsi a prendere atto delle minacce alla pace provenienti da attori tradizionali e non, o a fare di un processo di pace un metodo per garantire l’immobilismo o per giustificare l’esistenza di organismi e strutture. Anche la diplomazia quindi deve accettare la sfida "di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo"». Per la diplomazia pontificia questa indicazione non è solo una linea di condotta, ma una strada per raggiungere i risultati attesi dalle nostre società, opposta a quella percorsa da chi predica l’odio e da chi non vuole impegnarsi, in buona fede, per realizzare condizioni di pace. Non può quindi essere esaurita la forza della diplomazia. È necessario evitare di considerare che in questo momento il diritto internazionale non solo deve confrontarsi con una frequente volontà degli Stati a perseguire intessi particolari - le ormai molteplici teorie del
National interest sembrano diffidare delle "azioni concertate" nella Comunità internazionale - ma deve anche fronteggiare una sua evidente frammentazione che ne compromette gli effetti. «È paradossale, ad esempio, - fa osservare il Segretario di Stato - assistere ad un allargamento delle attività terroristiche nonostante l’esistenza di una regolazione internazionale di contrasto, volontariamente decisa dagli Stati, ben strutturata e pensata anzitutto in funzione preventiva. Cosa non funziona, allora: le regole o la volontà di applicarle?». Sono emblematiche in proposito le parole del Papa: «Quando la società - locale, nazionale o mondiale - abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di
intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice». Privilegiare la dimensione della cooperazione in ragione dell’esperienza realizzata con il modello di Helsinki può significare il superamento della previsione che «la forza delle armi non sarà usata, salvo che nell’interesse comune». Le nuove vie alla pace domandano alla diplomazia pontificia però di rileggere questo indicatore in base al capovolgimento di prospettiva proposto da Papa Francesco, facendo uscire dall’obiettivo della pace l’idea della forza organizzata come sinonimo di interesse comune: «Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli» poiché «come cristiani, restiamo profondamente convinti che lo scopo ultimo, il più degno della persona e della comunità umana, è l’abolizione della guerra». Nel suo intervento lo storico Franco Cardini di fronte alla minaccia dell’Is ha da parte sua ribadito che quella jhaidista «è una ideologia politica, che non ha nulla a che vedere con l’islamismo», mentre il critico letterario Carlo Ossola ha ribadito che «l’Europa può rimanere fedele a se stessa solo se resta universale, come la sua storia insegna».