«Il Maestro mi disse : "Non andrò più oltre, Gherardo. […] Tutta la vita, ho cercato risposte a domande che forse non hanno risposta; e scavavo nel marmo come se la verità si trovasse nel cuore della pietra, e distribuivo colori sulle pareti come se si trattasse di fissare accordi su un troppo grande silenzio. Ma tutto tace, anche la nostra anima - o siamo noi a non intendere"». Così evoca l’opera di Michelangelo, in uno dei suoi libri più intensi, Marguerite Yourcenar ("Sistina": Gherardo Perini, 1931, in
Le Temps, ce grand sculpteur, 1983). Pochi anni più tardi, nelle tenebre della seconda guerra mondiale, Giuseppe Ungaretti raccoglie nell’opera di Michelangelo il patrimonio di coscienza e di speranza di una civiltà: «Quell’umile speranza / Che travolgeva il teso Michelangelo / A murare ogni spazio in un baleno / Non concedendo all’anima / Nemmeno la risorsa di spezzarsi. / Per desolato fremito ale dava / A un’urbe come una semenza, arcana, / Perpetuava in sé il certo cielo, cupola / Febbrilmente superstite» ("Folli i miei passi", da
Il Dolore). Michalengelo Buonarroti (Caprese, 6 marzo 1475 - Roma, 18 febbraio 1564) non ha solo ricapitolato, dalla volta della
Genesi alla parete del
Giudizio universale nella Sistina, il senso della Bibbia e la storia dell’umanità, non ha solo, con il suo eroico titanismo, dato al corpo umano una misura magnanima e terribile (così Freud vedrà in
Mosè) ove «si vedono degli Ercole / fondersi con dei Cristi […] / e fantasmi possenti che nei crepuscoli / Strappano i loro sudari…» (è il Michelangelo di Baudelaire nei
Phares); egli è stato anche il più profondo poeta del Cinquecento, tormentato nei versi e nell’anima, cosciente della nostra
vanitas: «Chiunche nasce a morte arriva / nel fuggir del tempo ; e ’l sole / niuna cosa lascia viva. / […] / Ogni cosa a morte arriva. / […] / Già fur gli occhi nostri interi / con la luce in ogni speco ; / or son voti, orrendi e neri, /e ciò porta il tempo seco»; a un tempo fervido nell’anelare a una resurrezione che ci è promessa per misericordia e per dono: «Squarcia ’l vel tu, Signor, rompi quel muro / che con la suo durezza ne ritarda / il sol della tuo luce, al mondo spenta !».Accanto al canzoniere di Vittoria Colonna, e nello stesso cerchio dell’
Ecclesia viterbiensis del cardinal Reginald Pole, di Juan de Valdés, di Marcantonio Flaminio, le rime di Michelangelo testimoniano di una ricerca spirituale conscia della nostra finitudine e tuttavia raccolta nel «beneficio di Cristo», beneficio di grazia e di perdono: «Tuo sangue sol mie colpe lavi e tocchi, / e più abondi, quant’i’ son più vecchio, / di pronta aita e di perdono intero». Poeta e scultore della notte (nelle Tombe Medicee di San Lorenzo come nei propri versi), Michelangelo presta a essa un valore di raccoglimento che non è solo melancolia, ma percorso di conoscenza: «Quel che resta scoperto al sol, che ferve / per mille vari semi e mille piante, / il fier bifolco con l’aratro assale ; // ma l’ombra sol a piantar l’uomo serve. / Dunche, le notti più ch’e’ dì son sante, / quanto l’uom più d’ogni altro frutto vale». E di notte era venuto a Cristo, negli Evangeli, Nicodemo, perplesso e in cerca di salvezza; al quale (
Giov, III, 1-15) il Cristo suggerisce, liberandolo: «Dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce». E Nicodemo sorregge, dolente ma come venuto dall’alto, il mirabile gruppo marmoreo della
Pietà Bandini del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze (opera del Michelangelo maturo, 1550-55), e il simbolo di Nicodemo, perplesso e fidente, anima i versi "notturni" di Michelangelo: «O notte, o dolce tempo, benché nero, / con pace ogn’opra sempr’ al fin assalta ; / ben vede e ben intende chi t’esalta, / e chi t’onor’ ha l’intelletto intero».È stato spesso attribuito a Michelangelo il febbrile rovello della "terribilità", sin dai suoi primi biografi; leggendo tuttavia le sue rime, una più raccolta vena traspare, une remissione umile alla larga fonte dell’abbondare della Grazia: «Le spine e’ chiodi e l’una e l’altra palma / col tuo benigno / umil pietoso volto / prometton grazia di pentirsi molto, / e speme di salute a la trist’alma / […] // Tuo sangue sol mie colpe lavi e tocchi, / e più abondi, quant’i’ son più vecchio, / di pronta aita e di perdono intero». Si tratta, infatti, dell’incommensurabile «beneficio del sangue» che, come qui, in altre rime scorre, lavacro, promessa, pace: «Po’ che non fusti del tuo sangue avaro, / che sarà di tal don la tuo clemenza, / se ’l ciel non s’apre a noi con altra chiave?».
Sarebbe improprio collocare la poesia di Michelangelo nel mero solco del petrarchismo del Cinquecento; basterebbe evocare la quartina e il sonetto che più sembrano ricorrere al Petrarca: "Carico d’anni e di peccati pieno / e col trist’uso radicato e forte, / vicin mi veggio a l’una e l’altra morte, / e parte ’l cor nutrisco di veleno» per riconoscere, immediatamente, una radicalità senza riparo, un più severo bisogno agostiniano di confessare la miseria perché sovrabbondi la grazia: «Ma pur par nel tuo sangue si comprenda, / se per noi par non ebbe il tuo martire, / senza misura sien tuo cari doni». Ecco, «senza misura» è l’orizzonte di Michelangelo, che si chiude con una visione immensa: un abbraccio di croce che si stende salvifico sull’opera del mondo: «Né pinger né scolpir fie più che quieti / l’anima, volta a quell’amor divino / c’aperse, a prender noi, ’n croce le braccia». Non diversa, in questo quasi responsorio in rime, era la visione di Vittoria Colonna: «Le braccia aprendo in croce, e l’alme e pure / piaghe, largo, Signor, apristi il Cielo, / il Limbo, i sassi, i monumenti, e ’l velo / del tempio antico, e l’ombre, e le figure». Così dunque si presenta la lunga parabola di meditazione e creazione di Michelangelo: «Porgo la carta bianca / a’ vostri sacri inchiostri», in una remissione che è piena coscienza del paradosso delle Beatitudini, espresso come sommessa ultima preghiera alla Vergine: «Chieggio a voi, alta e diva / donna, saper se ’n ciel men grado tiene / l’umil peccato che ’l superchio bene».