Una libellula bloccata da quattro lembi di scotch. Delicata, fragilissima, inchiodata lì, sulla copertina. A vederla, «viene voglia di togliere lo scotch per liberarla», dice Anna Visciani commentando il «biglietto da visita» del suo primo libro, con cui apre le porte di casa per raccontare la quotidianità della sua famiglia: lei, suo marito Davide (figlio del filosofo Luigi Pareyson) e tre figli.La prima, Arianna, è nata troppo presto, alla trentesima settimana, con un cesareo d’urgenza; un’insufficienza respiratoria e un’emorragia cerebrale prima mettono a rischio la sua esistenza, poi le lasciano un’eredità pesante: «Non può fare nulla, nemmeno se aiutata. Il suo è un handicap grave, così grave che, non essendo in grado di parlare, di camminare, di mangiare o di bere da sola, è totalmente dipendente da un’altra persona. Che sono io», scrive la mamma.
Se Arianna squaderna con schiettezza talvolta graffiante e altrettanta struggente tenerezza la situazione in cui vengono catapultati i neo-genitori e, successivamente, i due fratelli gemelli della protagonista, Alice e Daniele. Che prendono la parola nei capitoli del volume: quattro punti di osservazione, sensibilità ed età diverse a comporre «un mosaico, costituito da molteplici tessere di colori diversi, la cui immagine finale è resa riconoscibile e comprensibile solo da una visione d’insieme. Le vicende, a volte paradossali e a volte tragicamente comiche (ma tutte assolutamente vere), rendono conto della "diversa abilità" che la nostra famiglia ha dovuto sviluppare in tutti questi anni per riuscire a condurre una vita dignitosa e accettabile per Arianna e per noi tutti».Non vince la rassegnazione, dunque, e neppure il buonismo. Anche se solitudine e angoscia restano dietro l’angolo: Daniele ha avuto bisogno del sostegno di uno psicoterapeuta, Alice è cresciuta molto in fretta accanto a quella che definisce «un’ingombrante, insolita sorella maggiore». L’impianto narrativo corale ne restituisce le voci nitide, lucide. È una singolarità per un volume dal sapore testimoniale, più che diaristico: sentimenti e fatti sono passati per il crogiuolo dell’elaborazione personale, dopo aver decantato emozioni viscerali. A chi legge arriva una sintesi –
in fieri e al tempo stesso compiuta – da quella porta di casa aperta, sapendo che può chiudersela alle spalle, mentre chi la vive sulla propria pelle non stacca mai la spina.Ma non è una storia come tante altre. Perché il vissuto di ogni nucleo familiare con una persona disabile è unico, trova equilibri particolarissimi e continuamente rimodulati dai bisogni del presente, dalle necessità impellenti. Non è semplice trovare le parole – asciutte, lapidarie, straordinariamente sincere – per descriverlo a chi non è immerso in quella realtà 24 ore su 24. L’autrice riesce nell’arduo compito solo perché ogni pagina – lo si intuisce fra le righe – è frutto di un percorso durato anni, di una consapevolezza profonda che abita in lei, nel marito e negli altri figli (la cui vita – ammette – «è stata fortemente condizionata») insieme a un amore gratuito e smisurato per Arianna, un metro e mezzo di altezza per 34 kg. Che non sarà mai autosufficiente.Il dolore della madre diventa grido quando sa che alla primogenita «non sarà concessa l’inestimabile felicità di una storia d’amore» e le è pure «negata l’immaginazione di futuro». Papà Davide aggiunge con dolcezza disarmante un tassello, quasi un’illuminazione: «L’accettazione arriva forse nel momento in cui si smette di pensare a come sarebbe stata e si comincia a volerle bene così come è, quando cioè il rapporto diventa tra due "persone". E Arianna è una persona».Scrivere una storia così provoca ulteriore sofferenza, però in Anna ha prevalso l’urgenza «di dare una testimonianza su come vive la propria faticosa quotidianità una famiglia al cui interno è presente una persona con un handicap grave come quello di Arianna. Ho voluto dare voce a tutti i componenti del nucleo famigliare, perché ognuno di noi ha instaurato un rapporto speciale con lei, fatto di affetto e attenzioni, ma anche ricco di riflessioni e contraddizioni. Il mio desiderio è che questo libro possa essere utile non solo a chi si trova in una situazione come la nostra, ma anche e soprattutto a chi non ha conoscenza diretta della disabilità», spiega Anna.
Una molla che va oltre il «recinto» degli addetti ai lavori e punta con forza a demolire luoghi comuni, imbarazzi, gesti di circostanza: «Per la gente comune la realtà che noi affrontiamo quotidianamente è lontana dall’immaginabile. Questa distanza incolmabile genera espressioni di superficiale e commiserevole retorica (del tipo "angelo custode", "eroina", "santa"), che vengono usate, spesso a sproposito, proprio da chi, incapace di comprendere, non si esime comunque dai commenti», annota in una pagina del libro. Tuttavia l’intento ultimo è trovare un punto d’incontro, cercando di svelare la misteriosa alchimia che consente di scherzare, ironizzare, divertirsi senza rimuovere o cancellare il dolore. Impresa prodigiosa che evita di «cadere in un’inutile retorica», evidenzia l’autrice, che ha scelto di descrivere «gli aspetti di cruda realtà (spesso trascurati quando si parla di handicap), affrontando senza falsi pudori le inevitabili considerazioni esistenziali. Nel raccontare la nostra "normalità" ho voluto conservare, nonostante tutto, una buona dose di ironia. La disabilità grave è quotidianità, con il suo carico di fatica, di dolore e di preoccupazione costante. Non solo bisogna parlarne di più, ma è anche necessario parlarne meglio: l’handicap non è fatto di singoli eventi spettacolari, ma di una silenziosa consuetudine al gravoso impegno del vivere».