Sono come il sale grosso dell’allegria: granelli variopinti gettati a piene mani nel pentolone in cui rimesta il Carnevale. Danno sapore a tutti gli altri ingredienti – le mascherine e le frittelle, le trombette e le stelle filanti, i carri e i petardi – e non sono mai abbastanza alla festa. I coriandoli sono cosa tanto volatile ed effimera da meravigliarsi che qualcuno abbia pensato di inventarli: saranno nati da soli, come fiocchi di carta sollevati dal tramestìo dei balli e delle sfilate, oppure quali lente mutazioni di antiche piogge gaudenti. Invece no: i coriandoli di inventori ne hanno addirittura due, e ben fieri di esserlo stati, tanto che la battaglia (postuma) sul riconoscimento ufficiale non si è ancora consumata tra loro. A noi importa comunque che ambedue siano italiani: il che, per la patria di tanti personaggi protagonisti internazionali del Carnevale, non è poco nient’affatto. Dunque, i contendenti nella carnascialesca diffida si chiamano Ettore Fenderl, triestino, ed Enrico Mangili, milanese. L’anno delle loro scoperte più o meno coincide: siamo intorno al 1870. Ambedue ingegneri, ambedue cavalieri, avrebbero ben altre glorie cui appendere la rispettiva memoria: il primo fu un inventore e un progettista di grandi opere come fabbriche e ferrovie, oltre che studioso di radiologia; il secondo è stato un imprenditore nel settore della seta. Ambedue – per completare le analogie – sono titolari di fondazioni benefiche: il triestino a Vittorio Veneto a favore dei malati che non hanno mezzi per curarsi, il milanese per i figli delle filatrici a Crescenzago. Eppure l’uno e l’altro rivendicano con orgoglio la creazione più bizzarra e «inutile» del S mondo: i coriandoli. Fenderl (che è morto ultracentenario nel 1966) ne spiegò l’origine in un’intervista radiofonica degli anni Cinquanta: nel 1876, quando aveva 14 anni ed a Carnevale voleva «fare il bulo colle ragazzine», non avendo i soldi per comprare i soliti confetti di gesso che era uso buttarsi tra mascherine, gli «venne l’idea di prendere carte colorate, farne strisce e tagliarle con la forbice a triangoli». Quando ne ebbe abbastanza, il giovane Ettore si piazzò su una terrazza durante la sfilata tradizionale e cominciò a gettare quei pezzetti di carta sulla folla. «Il primo successo è stato disastroso – continuava Fenderl nella sua deposizione via radio –, rimbotti e grida delle ragazze coi coriandoli nei capelli, cosicché venne su una guardia a mettermi in contravvenzione e a sequestrarmi tutto». a poi evidentemente l’idea prese piede, se anche l’inventore concludeva: «Sono superbo di questa piccola invenzione quando penso alla sua immensa espansione per il divertimento di tanti». Il caso di Enrico Mangili è invece assai più «tecnico» e risalirebbe suppergiù al 1875. L’ingegnere, essendo proprietario di una filanda ma anche attivista della «Famiglia artistica» milanese (la quale ogni anno organizzava a fini benefici il Carnevale dei Fanciulli), mise insieme genialmente le due competenze. All’epoca, infatti, per l’allevamento dei bachi (che tra aprile e maggio occupava moltissime famiglie M lombarde) si usavano lettiere composte da fogli di carta traforati; perché dunque – pensò Mangili che era, secondo le parole di un giornalista dell’epoca, «industriale attivo, ma artista nell’anima, l’uomo delle trovate» – non riciclare i dischetti di scarto al posto dei confetti di gesso, che peraltro facevano male ed a più riprese erano stati proibiti dalle autorità comunali? Dicono le cronache che per il primo anno la fabbrica li fornì gratis; ma poi, visto il successo ottenuto, non si tardò a trovare chi (forse il Mangili stesso) cominciò a produrli appositamente, tanto che all’inizio del secolo i coriandoli venivano venduti dagli ambulanti in Galleria a Milano a 5 o 6 centesimi per ogni misurino da caldarroste.La leggenda continua poi attribuendo al geniale ingegnere (che peraltro viene ricordato come organizzatore di «passeggiate di beneficenza» per raccogliere fondi in occasione di pubbliche calamità) anche la creazione delle stelle filanti, ispirate da un altro «riciclaggio»: quello dei rotoli di nastro per il telegrafo... Il nome, invece, i coriandoli se lo trovarono confezionato da qualche secolo: ed era quello dei semi dell’omonima pianta, usati come spezia nonché – fin dal Cinquecento, nelle feste e ai matrimoni – passati nello zucchero e mangiati per dolce (secondo alcuni anche per il loro effetto digestivo e depurativo, utile dopo tutti i bagordi) e ovviamente lanciati per scherzo. A Carnevale infatti si lanciava davvero di tutto: fiori, monete, arance, pallottole di gesso ma anche di fango, gusci riempiti di essenze aromatiche ma anche uova marce tout court, confetti ma pure pasticche di gesso (che a Milano erano vendute esclusivamente dalla corporazione dei facchini)... n’abitudine degenerata a tal punto che le dame dovevano proteggersi il volto con reticelle molto spesse e ombrelli più robusti del solito; e già nel 1597 una «grida» del governatore spagnolo di Milano imponeva di lanciare soltanto «uova d’acqua muschiata et veramente odorifera» sotto minaccia di una multa di 25 scudi o di una pena corporale. Non per nulla a tutt’oggi nelle principali lingue europee i coriandoli si chiamano «confetti»: così, in italiano, a testimonianza che siamo davvero la patria del Carnevale. Nel 1891, comunque, i coriandoli cartacei avevano già raggiunto Parigi, dove vennero usati durante una festa al Casino; l’anno seguente apparivano al corso dei carri di Nizza e nel 1895 erano titolari di una canzone in francese. Curiosamente però la capitale d’Oltralpe – unica città al mondo – li proibì tra il 1919 e il 1933 con una motivazione, oltre che economica (la pulizia delle strade costava: non è un caso se oggi l’ultimo grido del settore sono i coriandoli biodegradabili), igienica: secondo alcuni, infatti, i piccoli frammenti di carta erano diffusori di germi e batteri... La battaglia del Carnevale aveva trovato la sua arma biologica.