“Fin de Partie” di György Kurtág al Teatro alla Scala (Teatro alla Scala/Ruth Walz)
Alla fine la vita è una partita che va giocata da soli. Giocare e decidere che mossa fare. Come negli scacchi. Uscendo da uno stallo che (forse) non ha senso di esistere, perché la mossa vincente è lì davanti agli occhi. Eccola la morale che ti resta attaccata addosso, perché il teatro dell’assurdo di Samuel Beckett ti scava dentro, esistenzialmente. Amara, tragica morale di Finale di partita. Testo, quello datato 1957 del drammaturgo di Dublino, diventato ora un’opera lirica.
Da poco al Teatro alla Scala si è conclusa tra applausi scroscianti la prima mondiale di Fin de partie di György Kurtág: programmata per quattro anni in cartellone, ma rimandata ogni volta perché non ancora completata, è finalmente andata in scena la prima opera lirica scritta nella sua lunga carriera dal novantaduenne compositore ungherese. Stampa da tutto il mondo e in platea anche il premier ungherese Viktor Orbán venuto apposta da Budapest. Dove, invece, è rimasto Kurtág, troppo anziano per muoversi, tanto che il sovrintendente Alexander Pereira, il vero artefice dell’operazione, ha scritturato un’orchestra ungherese e gli organizzato le prove in casa con interpreti e direttore applauditi ieri a Milano (in buca i musicisti scaligeri).
«Questo è l’opus maximum di Kurtág, autore che in tutta la sua vita ha scritto pezzi lunghi al massimo quindici minuti, ma che qui ha realizzato una partitura che sfiora le due ore. Inusuale per un musicista come lui» spiega Markus Stenz scendendo dal podio con sottobraccio la partitura di Fin de partie che poi, salito sul palco, ha mostrato al pubblico. O meglio di Samuel Beckett: Fin de partie. Scènes et monologues, opéra en un acte. Perché il compositore ha intitolato così la sua opera nella quale ha scelto di mettere in musica solo alcuni quadri del dramma di Beckett, dalla pantomima di Clov allo straniante epilogo passando per i monologhi di Hamm, per la scena del bidone con i genitori e per il racconto del romanzo. Ai quali ha aggiunto un prologo/dedica su Roundelay, poesia dello stesso Beckett del 1976.
«Quella che avete visto è un’opera compiuta anche se il compositore ha musicato solo il 56% del testo di Beckett. Nel progetto iniziale Kurtág voleva musicare tutto il testo, parola per parola. Ma la partitura avrebbe superato le tre ore» spiega calato il sipario Pierre Audi. Il regista libanese, al suo debutto scaligero, ha seguito ogni fase della scrittura. «Ce la farò? Riuscirò mai a finirla» le domande che, spiega Audi, si è sempre posto il compositore. Sette anni di lavoro per raccontare in musica in cinque quadri il senso tragico della vita messo nella sua parabola da Beckett. Abbastanza contrario alla trasposizione sul pentagramma dei suoi testi. «La statura di Kurtág e la mediazione del nipote musicista di Beckett hanno convinto la fondazione a dire di sì» racconta ancora Audi. Autore di una messinscena fedele alla lettera al testo e alla musica.
Kurtág fa Kurtág, non mette nulla di nuovo sul pentagramma, non aggiunge nulla alla sua estetica, non apre squarci interpretativi rivoluzionari rispetto a una carriera fedele a se stessa, alla poetica del frammento, alla rilettura – anche ironica – della forme musicali classiche. Kurtág fa Kurtág. Ma lo fa all’ennesima potenza. E realizza un capolavoro inteso come punto di arrivo, come vertice dove il credo musicale di una vita trova l’espressione più compiuta.
In buca una grande orchestra che il compositore usa in modo cameristico per tutto lo spettacolo – «alcuni orchestrali contano le pause anche per il 90% del tempo» sorride Stenz che ha diretto senza bacchetta, affondando le mani nella densità della musica – e che alla fine vuole compatta nel raccontare il punto di domanda di un’esistenza che non urla, ma si chiede qual è il senso della vita.
Un’essenzialità funzionale a una trama sonora intellegibile, perfetta per Beckett: il canto nasce dalla musicalità della parola (il testo è nell’originale francese) resa alla perfezione da Frode Olsen (Hamm in carrozzina), Leigh Melrose (Clov claudicante), Hilary Summers e Leonardo Cortellazzi (Nell e Nagg, genitori nei bidoni).
I silenzi diventano musica, diventano note persino gli sbadigli di Hamm nel quale il musicista sembra identificarsi. È attraverso i suoi occhi che ormai non vedono più – paradosso eloquente – che Kurtág, e dunque l’ascoltatore, indaga la realtà, si lascia inquietare (prima che interrogare) da essa: Perché mi hai fatto? E adesso che faccio? le domande. Come in un incubo, di quelli labirintici – il cimbalon e la fisarmonica, le percussioni e il pianoforte, strumenti che tornano nei lavori del compositore, arrivano ovattati, onirici – come la scenografia che Audi (che fa una classica regia da Finale di partita) ha chiesto a Christof Hetzer: una casa grigia incastonata in due sezioni di case che ruota cambiando posizione a ogni quadro per tornare alla posizione di partenza. Per raccontare con Beckett che «la fine è nel principio». Per dire con Kurtág, con un inaspettato bagliore di speranza, che la fine di una partita (chiamiamola vita?) non è che l’inizio di un’altra.