«Quando un Paese è così ricco di generi alimentari da poterli esportare non può esserci alcuna carestia. Sono state le leggi britanniche a costringere me e la mia famiglia a emigrare». È passato più di un secolo da quando il grande drammaturgo irlandese George Bernard Shaw affidò al personaggio di una delle sue commedie la spiegazione più eloquente circa le cause della Grande Carestia che tra il 1845 e il 1850 decimò la popolazione dell’Irlanda. Basta un rapido sguardo al passato per avere la conferma che certe calamità, come quella che da mesi colpisce la Somalia, non sono affatto “naturali”: ne è convinto lo scrittore australiano Thomas Keneally, autore di decine di romanzi di successo tra cui quello che ha ispirato il film <+corsivo>Schindler’s lList<+tondo>. Il suo ultimo libro,
Three Famines, racconta alcune tra le più terrificanti carestie dell’ultimo secolo e mezzo – quella etiopica degli anni ’80, quella scoppiata nel Bengala nel 1943 e, appunto, quella irlandese del XIX secolo – individuando molte analogie anche con altre tragedie simili, come quelle causate dai regimi comunisti in Ucraina e in Corea del Nord. Se la prende in particolare, Keneally, con la spiegazione malthusiana secondo la quale le carestie sarebbero la conseguenza della sovrappopolazione, e spiega invece che sono quasi sempre fattori naturali a innescarle, ma è la politica che le rende devastanti. Non ci sarebbe stata alcuna carestia nel Bengala – sostiene – se i britannici non avessero ostacolato le importazioni di generi alimentali nella provincia indiana dopo le inondazioni che distrussero i raccolti. Non fu la siccità a causare la tragedia della fame in Etiopia, bensì la guerra civile e la collettivizzazione forzata imposta da Menghistu. Quanto poi alla “carestia delle patate” in Irlanda, fu scatenata da un fungo ma ad amplificarla a dismisura ci pensarono i dogmi britannici del libero mercato: l’Irlanda aveva materie prime in abbondanza per sfamare la sua popolazione, se solo Londra avesse cessato di esportarle. La riflessione di Keneally risulta di particolare attualità oggi che, secondo i dati delle Nazioni Unite, circa 25mila persone muoiono ogni giorno per cause legate alla denutrizione.
Che cosa l’ha spinta a cimentarsi nella scrittura di questo saggio?«Ho cominciato a occuparmi di carestie nel mio libro di qualche anno fa sulla <+corsivo>Great Famine <+tondo>irlandese e mi hanno colpito le similitudini che si possono riscontrare in altre calamità. Nella ricerca che è confluita in <+corsivo>Three Famines <+tondo>ho cercato di capire se le carestie sono effetto dell’opera dell’uomo o della volontà divina, sotto forma di siccità o di carenza di generi alimentari. Sono giunto alla conclusione che queste cause non sono sufficienti a uccidere migliaia di persone, se non sopraggiungono fattori politici. E lo stesso discorso vale anche oggi per la Somalia».
Perché ritiene che le carestie siano state causate dall’uomo e dai governi?«La ragione principale deriva dal fatto che io vivo in uno dei continenti più secchi del mondo, l’Australia, dove da sempre si verificano gravi fenomeni di siccità. Che hanno sempre creato molti problemi, ma non hanno mai scatenato una carestia. Il motivo è semplice. In primo luogo abbiamo un sistema democratico che funziona, che ci consentirebbe di cacciare i nostri politici all’istante. Poi abbiamo ottime infrastrutture, strade e ospedali. È chiaro quindi che la siccità, da sola, non basta per scatenare una carestia. E non è sufficiente neanche un maremoto, come quello che vi fu nel Bengala nel 1943. Eppure oggi si continua a dire che l’ecatombe in corso in Somalia e nel resto del Corno d’Africa sia causata dalla siccità».
Per quale motivo ancora oggi migliaia di persone continuano a morire a causa della fame o delle malattie conseguenti?«Sono più bravo a raccontare le storie di queste carestie che a proporre delle soluzioni. Anche per le associazioni umanitarie è difficile far qualcosa, visto che devono collaborare con governi che possono essere inetti, incompetenti o corrotti. In Somalia c’è un governo fantoccio, mentre nelle campagne opera la milizia Al-Shabaab, che terrorizza la popolazione e decide quale tipo di aiuti debba entrare nel Paese. Inoltre è considerata un’organizzazione terroristica e dunque le ong non possono fornire aiuti che andrebbero a finire con ogni probabilità nelle loro mani. Spesso gli occidentali non sanno che il meccanismo degli aiuti è molto complicato dalla politica. In Etiopia al tempo di Menghistu, per esempio, gli aiuti arrivarono dai sovietici, ma furono aiuti militari per combattere gli eritrei. Sarebbe utile che i Paesi più sviluppati dell’Occidente smettessero di concludere accordi con i dittatori e facessero invece pressione su di loro. Ma ridurre le cause delle carestie alla siccità è un’affermazione a dir poco ridicola».
Spera che il suo libro possa insegnare qualcosa ai nostri leader politici?«Sì, certo e magari anche alla gente comune. Spero che possa contribuire a far vedere certi eventi sotto una diversa prospettiva. Vorrei che la popolazione ricca dell’Occidente smettesse di provare pietà o, peggio ancora, noia nei confronti delle carestie africane e ne comprendesse le reali cause, senza farsi ingannare dalle apparenze».
Il suo lavoro è stato influenzato dalla sua educazione cattolica e dai suoi studi di teologia?«Decisamente sì. Sono cresciuto in una famiglia politicamente molto progressista e allo stesso tempo molto cattolica. I miei nonni, immigrati irlandesi in Australia, credevano fermamente nella giustizia sociale. E questi ideali mi sono stati tramandati anche dai miei genitori e tuttora sono la bussola del mio lavoro».