lunedì 9 febbraio 2009
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Da oltre vent’anni l’islam funziona come paradigma vincolato al rapporto fra religione e politica, religione e violenza. Ciò avviene anche perché, purtroppo, l’islam è divenuto l’attore privilegiato di questo fenomeno sul quale, bisogna dire la verità, abbiamo pochissimi quadri concettuali di riferimento per comprenderne in modo adeguato la consistenza e la valenza. Perciò tutti gli elementi di riflessione relativi al fenomeno del martirio anche nella sua visualizzazione profana (terrorismo, ecc.) fanno troppo spesso ricorso a griglie interpretative frammentarie. Di volta in volta si fa ricorso alla storia, alla sociologia, alla situazione geopolitica internazionale. Contemporaneamente è uscita una mole di letteratura abbastanza cospicua sulla relazione fra violenza e islam, fra terrorismo islamico e martirio, in cui ogni autore espone la propria idea sul fenomeno, sulla sua ampiezza, sulla sua sostanza [...]. La violenza è collegata, in particolare nell’islam, ad un carattere fondamentale nel monoteismo: la nozione di haqq, ossia di verità, il nodo rispetto al quale nell’islam si giustifica il meccanismo della violenza. Tuttavia, per permettere questa transizione è inevitabile praticare il gioco delle "doppie verità" facilmente leggibile nel testo coranico. Esso implica una rivisitazione della nozione stessa di monoteismo islamico. Tutto il testo coranico, lo ricordo, non è un racconto, non è un "vangelo", non segue una logica della narrazione, ciascun capitolo è un mondo a sé, una storia a sé. In un certo senso, però, c’è una logica continuativa all’interno delle 114 sure (o capitoli) che compongono il testo coranico. Essa si basa su dei paradigmi che riassumono la dialettica inerente al dramma della verità che è, allo stesso tempo, il dramma dell’umanità. Si tratta di un’oscillazione costante – che spesso si risolve nella violenza reale, quindi nel sangue versato – fra verità storica e verità universale. La prima è anche la sistematizzazione della rivelazione coranica, è la verità che fa sì che gli esseri e le comunità umani entrino in comunicazione o rifiutino di farlo. La verità storica è anche le strutture geostoriche e geoculturali nelle quali essa si incarna, dimensione in un certo modo già presente e canalizzata nel testo coranico. È compito di un sistema monoteistico saper canalizzare questa verità storica incarnata nell’umano allorché essa diventa anche fede e dovrebbe essere risolta attraverso l’assunzione di un’altra verità di tipo universale, che non è più la verità delle verità, ma è una verità che si annulla perché – l’espressione è coranica (ma è condivisa da ogni monoteismo) – essa è nur, in arabo la luce. Questa dialettica, questa opposizione costante è presente in numerosissimi versetti del Corano [...]. L’essenza stessa del monoteismo risiede nella sua capacità di superare i meccanismi della violenza e soprattutto di trascendere il dato obiettivo del nostro essere nel mondo espresso nelle nostre differenze linguistiche, etniche e religiose. In quest’ottica il testo coranico non è un codice, ma è una testimonianza e una linea direttrice. Il problema è che oggi questa lettura, che definisco "islam della testimonianza" tende o a essere marginalizzata o a non avere ascolto. Infatti, rispetto all’opposizione fra verità storica e verità di tipo universale, mi sembra evidente che la cronaca politica giornaliera dia voce al primato della verità storica in opposizione a ciò che è l’essenza stessa del monoteismo. Perché? Perché il nostro dramma è non poter vedere la verità capace di riassumere in sé le verità storiche. Infatti l’umanità, e ovviamente in questo contesto colloco anche una parte dell’islam, cade nella logica del conflitto, della violenza e della cultura della morte. In questo scenario prevale spesso la griglia di lettura di tipo geopolitico, vale a dire la conflittualità politica internazionale sarebbe all’origine di una enfatizzazione del concetto stesso di martirio dell’islam. C’è però anche un’altra griglia di lettura che tende a privilegiare il fatto che l’idea di martirio, e di assunzione della morte come nesso fra verità storica e verità universale, faccia parte dell’essenza stessa del messaggio coranico. Altre letture tendono invece a mettere in rilievo fenomeni inediti – conseguenze anche di un mutamento profondo della società contemporanea – come per esempio il fatto che la dimensione del martirio tende a rovesciare e a imbrogliare i rapporti fra sacro e profano. Il martirio si presenta, cioè, come vettore di transizione fra l’elemento della sacralità e quello della profanità [...]. Oggi la questione del martirio è estremamente complessa perché la si può leggere solo all’interno di una dinamica che privilegia la relazione fra l’identità individuale e la società. Bisogna sempre giocare quasi in modo simmetrico su questi due piani, anche nel caso dell’islam. Il martirio, preso in senso non solo individuale ma anche collettivo (si ammazzano anche tanti innocenti), è il risultato di una trasformazione profonda dell’islam contemporaneo che comporta una crisi di tipo tanto collettivo quanto individuale. La crisi collettiva può essere definita da molti elementi, uno dei quali è senz’altro, per parlare schematicamente, la spaccatura dell’islam contemporaneo: da un lato vi sono coloro che privilegiano una visione dell’islam più o meno laica, dall’altro quelli che optano per una relazione privilegiata con la politica. Ma questo non ci dice tutto. A mio avviso l’altra grande crisi, che ci sposta su piani filosofici attenti anche alla psicologia di massa, è la crisi del "soggetto" nell’islam che è il risultato della storia del Novecento e della sua posizione nel mondo: qual è la relazione islam-mondo oggi? Come si posiziona? Il soggetto musulmano patisce una crisi della personalità di fondo, all’interno di un islam che si connota non più in riferimento a società tradizionali bensì in relazione alle dinamiche della modernizzazione e della globalizzazione di cui non si può fare a meno anche per capire il fenomeno religioso all’interno dell’islam. In altri termini, dal punto di vista sociologico siamo di fronte a un islam privo di cultura e questo fenomeno si rispecchia sul soggetto individuale. l soggetto individuale è il risultato di uno sradicamento profondo di un islam che oggi non conosce più quasi il settanta per cento dei propri testi. È come se, durante il Novecento, avesse subito una specie di lobotomia. Non si posseggono più gli strumenti fondamentali per capire l’universo complesso del Corano. Non basta leggere il Corano, c’è bisogno del commento, vale a dire della cultura, dell’esegesi e dell’interpretazione. Sradicamento vuol dire anche crisi della personalità di base dell’islam. Sotto altri aspetti, anche in Occidente ritroviamo lo stesso fenomeno: la morte della cultura. Non può esistere un sistema religioso senza una sistematizzazione culturale. La rivelazione si incarna nella comunità culturale il che implica dar spazio alla cultura o alle culture. Oggi la morte della cultura significa la cultura della morte. Lo si avverte benissimo nel fenomeno kamikaze. Con esso, siamo lontani dal martirio che, va detto, non è più neanche martirio perché è completamente decontestualizzato dalla sua valenza di testimonianza, vale a dire di abbandono del sé e di autorealizzazione spirituale. In questi casi non è più martirio, mi rifiuto di chiamarlo tale, è un assassinio; è un crimine. Cosa provoca questa decontestualizzazione? Ovviamente una scomparsa di ciò che era fondamentale al mondo musulmano. Il risultato è che assistiamo alla genesi di nuovi comportamenti religiosi, violenti, negativi, ecc., ma anche positivi (per esempio nell’islam della diaspora e non solo) che però, oggi, sono sprovvisti di monitoraggio, o meglio di un accompagnamento teologico. In qualunque crisi di tipo sociale pullulano, di fronte al vuoto, quelli che nella mia Lettera a un kamikaze ho chiamato cattivi maestri. Il loro proposito è occultare la dimensione della complessità, della cultura, della molteplicità, dell’identità culturale. Il cattivo maestro, nell’ambito del testo coranico e della rivelazione svolge un solo lavoro: legge il testo così com’è. Ma lo stesso profeta Maometto ha detto che il testo non poteva essere letto in questo modo: ha bisogno di un apparato, di una intelligibilità di mediazione. Oggi viviamo invece nel regno dei cattivi maestri e i buoni o sono poco presenti o si dà loro poca voce. L’altro aspetto connesso alla forma che riveste oggi la nozione di martirio è l’oscillazione fra sacro e profano (attestata anche in campo occidentale) che genera confusione. Nella questione della violenza si utilizzano terminologie che tendono a non farci avanzare neanche di un millimetro, al contrario ci fanno rimanere fermi, se non addirittura retrocedere. Occorre invece storicizzare la nozione di martirio e assicurare così vie di passaggio che diventino anche salvaguardia delle stessa nozione di martirio. È il caso, per esempio, dell’impegno volto a smascherare la costruzione di una supposta simmetria fra martire e resistente. Più di una volta ho ripetuto che il martire, oggi, quando ammazza decine e decine di innocenti non può essere equiparabile alla figura del resistente. Si vede assai bene che il linguaggio assume una funzione ideologica e tende a occultare ancora di più la dimensione del trompel’oeil di cui è rivestita la figura del martirio.Anche le immagini, apparse in questi ultimi anni sui nostri teleschermi, di ragazzi con in mano il Corano e la cintura a bomba sono certamente preoccupanti, ma tuttavia possono essere anche un’icona tragica, di una doppia tragedia, individuale e collettiva. Per questo ho scritto un articolo sulla solitudine dell’islam, nel quale volevo mettere in luce due punti: da una parte l’immenso caos presente in un islam che parla senza parlare perché utilizza i meccanismi della violenza che esprimono un grido che segnala non soltanto una crisi e una disperazione, ma anche una enorme solitudine nel mondo e col mondo. Voglio dire con ciò che questa iperviolenza della violenza tenderebbe – e posso per quest’affermazione essere contestato, ma sono solo ipotesi che avanzo – a indicare la fine dell’islam come sistema, sono le grida di un corpo che sta morendo. L’iperviolenza del terrorista kamikaze tenderebbe a definire il fatto che l’islam sarebbe entrato nella sua ultima fase alla quale dovrebbe subentrare "un islam di testimonianza" nel senso reale della parola. Cosa vuol dire testimoniareoggi? Tutti noi testimoniamo anche senza averne la consapevolezza. Testimoniare significa avere la consapevolezza del nostro malessere, col mondo e nel mondo. Essere testimone musulmano nel mondo non ci garantisce niente nei confronti della vecchiaia o della malattia o delle guerre; significa invece assumere realmente il principio fondativo per cui il monoteismo è in atto, vale a dire essere consapevoli della propria solitudine. Vorrei sottolineare che il martirio, o assassinio come preferirei chiamarlo, ci rivela un’altra componente importante delle odierne dinamiche antisociali. Non siamo assolutamente al riparo dai pericoli che ho sottolineato in occasione della strage della scuola di Beslan: quando le crisi esplodono si corre il rischio della transizione – ed è un passaggio preoccupante – dalla colpevolezza individuale a quella collettiva. È quello che è successo in Olanda dopo l’assassinio di Theo van Gogh. Si tratta della comparsa di meccanismi che producono violenza che trascina con sé non individui, ma gruppi umani. Risulta allora sempre più necessaria l’attuazione del passaggio da un islam inteso come sistema a un islam proposto come testimonianza. Per il musulmano questa assunzione necessita di una dimensione che lo ricollega all’islam tanto come individuo quanto come collettività. Un hadith (detto extra coranico) del Profeta recita: «La mia comunità non si riunirà mai su un errore»; il martirio-assassinio è l’errore dell’islam di oggi.
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