venerdì 7 luglio 2023
Il grande attore e regista polacco oggi ospite al Lecco Film Fest organizzato dall'Ente dello Spettacolo si racconta da "Decalogo" a "Il sol dell'avvenire"
L'attore e regista polacco Jerzy Sthur al Lecco Film Festival

L'attore e regista polacco Jerzy Sthur al Lecco Film Festival - Foto di Monica Fagioli

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Con la sua aria da uomo comune Jerzy Sthur ha dato volto con straordinaria arte al grande cinema polacco. Star del teatro, prima, poi attore prediletto di Andrzej Wajda, Krzysztof Zanussi (Da un Paese lontano) e soprattutto Krzysztof Kieślowski (Decalogo 10 e Tre colori. Film Bianco), dopo avere dato un contributo fondamentale al cinema del suo Paese oggi Sthur, 75 anni, vive una nuova popolarità in Italia grazie ai film di Nanni Moretti che l’ha voluto ne Il Caimano, Habemus Papam (nel ruolo di Marcin Raijski, portavoce della Santa Sede) e il recente Il sol dell’avvenire

Lo incontriamo a Lecco per la quarta edizione del Lecco Film Fest, che si è aperto il 5 luglio per concludersi domenica 9 luglio con Carlo Verdone, fra i tanti ospiti di questa ricchissima kermesse fatta di incontri pubblici e proiezioni aperte al pubblico. “Ridestare lo stupore” è il tema scelto dal Festival organizzato da Fondazione Ente dello Spettacolo (presieduta da Monsignor Davide Milani), promosso da Confindustria Lecco e Sondrio e curato da Angela D’Arrigo. Sthur oggi a Lecco ha presentato Big animal, suo film da regista del 2000, tratto da una sceneggiatura del 1973 di Kieslowski ritrovata postuma, e mai distribuito in Italia. Una commedia bizzarra sull’amicizia tra un uomo e un cammello.

Jerzy Sthur, che rapporto aveva con Kieslowski e come è stato dare vita a una sua sceneggiatura?

E’ stata una bella responsabilità. Mi hanno chiesto di fare un film da questa sceneggiatura perché io Kieslowski lo conoscevo benissimo. Fu lui a farmi debuttare al cinema nel suo primo film La cicatrice del 1976. Kieslowski era più uno psicologo che un regista, creava un rapporto molto intimo con l’attore. Ha cambiato i criteri dell’interpretazione, perché voleva che non si recitasse ma che si portassero le proprie vere emozioni in scena.

E chi è stato per lei Wajda?

Per me era un maestro. Abbiamo collaborato per anni e anni teatro, grandi titoli come Delitto e Castigo: io ero il suo attore e facevo anche l’aiuto regista. Lui è diverso perché è un poeta del cinema, non è un esecutore dei compiti: era uno fra le nuvole, un artista e bisognava conoscerlo molto bene e seguirlo bene.

Nel 1981 è arrivato Da un paese lontano di Zanussi sulla vita di papa Wojtyla. Lei ha incontrato Giovanni Paolo II?

Wojtyla l’ho incontrato spesso perché io sono di Cracovia. A teatro lui è venuto spesso a vedere i nostri spettacoli. Sono stato due volte in Vaticano: una volta coi miei compagni di teatro e un'altra a pranzo privato con mia moglie. Trovavo in lui sempre una grande semplicità e argomenti su cui conversare.

Come polacchi avete vissuto entrambi la difficile epoca del comunismo.

Certo, anche se in modo completamente diverso. Per noi il Papa era una difesa della nostra identità. I suoi principi erano seguiti da tutti. Noi artisti del cinema polacco abbiamo fatto resistenza con i film. In generale quello polacco è un cinema psicologico. Prima della Seconda Guerra Mondiale c’era un periodo di romanticismo psicologico nel cinema sui grandi problemi dell’uomo. La nostra generazione, a partire da Wajda, doveva difendersi dal comunismo. Come, dato che non era possibile liberarsi? Mantenendo la propria identità. Quello fu il periodo cinematografico dell’”inquietudine morale”.

Oggi la Polonia è di nuovo in prima linea accanto all’Ucraina aggredita dalla Russia, accogliendo anche migliaia di profughi.

Per noi non è un problema: accogliere gli ucraini è una cosa grandissima. Una famiglia ucraina vive anche a casa di nostro figlio a Varsavia.

Ma a la preoccupano Putin e le minacce russe?

Non crediamo possano farcela perché, conoscendo la Russia, si vede anche che sono deboli. Si vede dai particolari, dall’organizzazione dell’esercito: è tutto un disordine che noi conosciamo bene…

Lei ha anche un grande rapporto con il teatro e il cinema italiano. Come è nato?

Venni in Italia a Pontedera dove lavoravano attori polacchi come Grotowski. Poi feci compagnia con il grande Mario Scaccia. Poi mi feci notare alla Mostra di Venezia con la mia regia di Storie d’amore nel 1997 e successivamente con la regia di Sette giorni nella vita di un uomo. Da Venezia inizia un mio itinerario completamente diverso dal teatro. Nanni Moretti mise in programmazione per un mese Storie d’amore al suo Cinema Sacher e mi chiese di partecipare a Il Caimano nel 2006. Da lì è iniziata una mia nuova vita artistica.

Come è lavorare con Nanni Moretti?

Con Moretti è speciale perché anche lui è un attore e io sono un attore, allora troviamo un linguaggio comune, anche se non siamo d’accordo su tutto. Quando recitiamo insieme, ci aiutiamo sempre. Anche se con Nanni non è facile, è un po’ noioso…Ma anche io devo stare attento perché recito in una lingua che non è la mia.

Nel 2011 interpreta il ruolo di Marcin Raijski, portavoce della Santa Sede in Habemus Papam. Che rapporto ha con la fede?

Beh, da bambino ho fatto pure il chierichetto... Per quello che riguarda la fede, in realtà io credo in me stesso. O meglio, ho bisogno di un assoluto, è una cosa che proviene dal mio mestiere: dove è non lo so, pero è così.

Adesso a cosa sta lavorando?

Ora sto lavorando a un progetto di film in Italia del regista Antonio Morabito, una parte molto bella dove recito con due attori rom. Per il resto mi dedico al teatro e agli autori contemporanei. A dicembre metterò in scena in Polonia una pièce su un incontro immaginario fra Stanislawsky, che io interpreto, che insegna i trucchi della recitazione a Stalin a fini politici.

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