I suoi avversari giurano che per batterlo ci sarebbe voluto soltanto l’elicottero. Tanta era la facilità con cui Vladimir Jascenko (1959 1999) riusciva a staccare i piedi da terra e a volare leggero sull’asticella. Non sapremmo mai quali altezze avrebbe ancora raggiunto quel ragazzotto sognatore e ribelle che incantò il mondo negli anni Settanta diventando primatista mondiale di salto in alto. Ma questa è la storia di un campione fragile che saltava troppo in alto per l’opprimente regime comunista sovietico. E la sua rincorsa finì molto prima che il suo talento sbocciasse completamente. Da leggenda a dimenticato, eppure l’amara parabola di Jascenko si rivela emozionante anche per chi soltanto oggi si imbatte nella sua vicenda umana e sportiva. Lo dimostra una biografia intrigante che si legge come un romanzo, scritta da Giuseppe Ottomano con un amico del campione, Igor Timohin (Il volo di Volodja; Miraggi, pagine 160, euro 15,00). Un testo che fa rivivere le gesta di un vero fenomeno. Come testimonia anche la prefazione entusiasta di un decano dell’atletica in tv, il giornalista Franco Bragagna, il quale ammette di aver avuto per anni il poster di Jascenko sul suo letto. Originario di Zaporizzja, nell’odierna Ucraina, Vladimir Jascenko, più noto come Volodja, aveva mostrato già da adolescente un talento naturale. Agile spilungone di 194 cm entrò subito a far parte dello squadrone sovietico di atletica. E indossare la storica canottiera rossa Cccp voleva dire una volta di più che la tua esistenza apparteneva allo Stato comunista. Per l’Urss le vittorie sportive valevano doppio perché attestavano la supremazia socialista nel mondo. Volodja saltava ancora alla vecchia maniera, con quello stile ventrale che sarebbe stato soppiantato dal fosbury, l’attuale tecnica dorsale. Aveva appena 18 anni quando nel 1977 a Richmond saltò agilmente 2,33 cm stabilendo il nuovo record mondiale. Fece ancora meglio l’anno dopo a Milano saltando 2,35 cm. Da allora la sua popolarità fu planetaria: il pubblico occidentale fu rapito da quello stravagante capellone, che indossava scarpe di colore diverso e durante le interviste si divertiva a toccare il soffitto con i piedi. Era il primo atleta sovietico dal volto umano. Le sue doti fisiche suscitarono perfino l’interesse degli scienziati aerospaziali secondo i quali aveva le potenzialità per saltare anche 2 metri e cinquanta (5 cm in più dell’attuale record del mondo). Il successo galvanizzò Volodja, ma fama e onori non riuscivano a rispondere alle domande che gli rodevano dentro: «Quante volte me lo chiedo: chi sono io?», scriveva nel suo diario. Tanto più in un regime senza cuore. I funzionari del partito lo braccavano e gli imponevano i meeting più disparati. Il Kgb lo sorvegliava a vista per paura che come altri fuggisse in Occidente e chiedesse asilo politico. Lui avrebbe voluto vivere la stessa libertà dei suoi coetanei ad Ovest: adorava il cinema, i Beatles, le serate in compagnia. Milano fu l’inizio del suo declino. Il suo ginocchio cominciò a scricchiolare: gli ordinarono di gareggiare comunque se avesse voluto partecipare alle Olimpiadi di Mosca. E con l’inganno fu trascinato in una gara in Lituania da dove ritornò a pezzi: operato maldestramente due volte al menisco, a 22 anni la sua carriera poteva dirsi già conclusa. Lottò con tutte le sue forze per risollevarsi: «La vita è un dono stupendo» continuava a ripetere. Ma più forte fu l’indifferenza della gente e la tentazione di lasciarsi andare. Scaricato e dimenticato dal regime, fu ritenuto pazzo e rinchiuso in un ospedale psichiatrico. E invece avrebbe voluto gridare al mondo la sua voglia di vivere.Quando il Muro di Berlino cadde era già troppo tardi e la vodka lo aveva già distrutto. Non un martire del comunismo, né un perseguitato. Ma «un borghese individualista », sopportato e disprezzato da un regime che calpestava le più profonde aspirazioni dell’animo e gli tarpò le ali. Morì di un tumore al fegato nel novembre del ’99. Al capezzale del suo letto c’era la madre per affidarlo a quel Dio a cui Volodja non era riuscito mai ad aggrapparsi e che il comunismo aveva bandito. Pregava con la certezza che solo la fede avrebbe potuto dare al figlio la forza per non arrendersi e riprendere a volare.
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